Mi
sono francamente stancato di questa sudditanza psicologica nei confronti del
gigante americano, che viene dimostrata in continuazione anche nel linguaggio. L’esempio
più evidente è l’utilizzo, dato per scontato, dell’acronimo “USA”, che non ha senso
nella lingua italiana. Io dicevo ai miei studenti. “Usa? Chi sta usando cosa? Usa
e getta!”. E, all’osservazione che tale acronimo esiste nella lingua inglese, rispondevo:
“if we were speaking english, we would say USA, but we are speaking italian, so
we say SUA”. Che significa: se stessimo parlando in inglese, diremmo USA (iu-es-ei), ma
stiamo parlando in italiano, perciò diciamo SUA. Infatti l’acronimo in lingua
italiana deriva da “Stati Uniti d’America” e siccome la preposizione “d” viene
omessa (altrimenti diventerebbe SUDA, che non suona molto bene da noi), risulta
SUA. Che ha tre lettere esattamente come USA, quindi non è più lungo, come
ossessivamente si sente ripetere dagli anglofoni ad ogni costo, i quali
continuano a dire che l’inglese è più sintetico dell’italiano. Tesi che
potrebbe essere facilmente smentita anche solo paragonando alcune delle parole
più in voga: “rete” è più corta di “network”, ad esempio, “mangia” è più corto
di “just eat”, e così via. Bisogna aggiungere poi che molte parole corte usate
in inglese sono state inventate appositamente, ma non esistevano nella lingua
correttamente parlata: “internet” è una contrazione di “international network”,
“blog” è una sintesi di “web log” che in italiano sarebbe “diario in rete” o
più semplicemente “diario”. Se fosse ancora vivo Gabriele d’Annunzio
probabilmente si sbizzarrirebbe nel creare parole nuove in italiano; magari “blog”
diventerebbe “diarettino”, che dà contemporaneamente l’idea del diario e della
rete.
Il
fatto è che attualmente, nella “serva Italia”, se non dimostri di sapere l’inglese
non sei nessuno; nella “nave senza nocchiere, in gran tempesta” per dirla con
il nostro padre Dante (1),
sapere l’inglese è considerato assolutamente necessario per poter essere
ritenuti persone di cultura. E così l’acronimo SUA viene utilizzato solo dal
prof. Marinelli e da pochi altri. Come l’acronimo RUGBIN (Regno Unito di Gran
Bretagna e Irlanda del Nord), perfetto per definire tale Stato e peraltro
inventato da uno dei miei studenti di Corsico. Sarebbe giusto almeno dire,
invece di UK (United Kingdom), RU (Regno Unito), ma anche qui il suggerimento
della parola “rutto” probabilmente ne scoraggia l’uso.
Ma
gli esempi sono moltissimi: dalla parola “step” che viene usata a piene mani
invece di “passaggio” o “fase” (anch’essa di quattro lettere), al mitico “lockdown”
invece di “chiusure”, “performance” invece di “prestazione”, che hanno la stessa
lunghezza, etc. etc. E che dire delle parole latine che vengono scambiate per
anglosassoni? “Sponsor” in latino significa “garante”; “media” in latino
significa “mezzi”, e alcune parole latine sono direttamente entrate nella
lingua italiana, come “virus” “tutor”, “plus” (che le persone ignoranti
pronunciano “vairus”, “tiutor”, “plas”, applicando la pronuncia anglicana alle
parole latine).
Insomma,
è una nobile gara all’asservimento culturale da parte di una Nazione che di cultura
ne ha da vendere, come la nostra. Dovremmo al contrario riscoprire la nostra
storia, la nostra tradizione e soprattutto la bellezza della nostra lingua, del
“bel Paese ove il sì sona”(2).
1)
“Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiere
in gran tempesta, non donna di province, ma bordello!” Purgatorio, canto VI,
vv. 76-78)
2) Inferno,
canto XXXIII, v. 80;
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