sabato 1 febbraio 2025

USA E GETTA

 

     


                               

Mi sono francamente stancato di questa sudditanza psicologica nei confronti del gigante americano, che viene dimostrata in continuazione anche nel linguaggio. L’esempio più evidente è l’utilizzo, dato per scontato, dell’acronimo “USA”, che non ha senso nella lingua italiana. Io dicevo ai miei studenti. “Usa? Chi sta usando cosa? Usa e getta!”. E, all’osservazione che tale acronimo esiste nella lingua inglese, rispondevo: “if we were speaking english, we would say USA, but we are speaking italian, so we say SUA”. Che significa: se stessimo parlando in inglese, diremmo USA (iu-es-ei), ma stiamo parlando in italiano, perciò diciamo SUA. Infatti l’acronimo in lingua italiana deriva da “Stati Uniti d’America” e siccome la preposizione “d” viene omessa (altrimenti diventerebbe SUDA, che non suona molto bene da noi), risulta SUA. Che ha tre lettere esattamente come USA, quindi non è più lungo, come ossessivamente si sente ripetere dagli anglofoni ad ogni costo, i quali continuano a dire che l’inglese è più sintetico dell’italiano. Tesi che potrebbe essere facilmente smentita anche solo paragonando alcune delle parole più in voga: “rete” è più corta di “network”, ad esempio, “mangia” è più corto di “just eat”, e così via. Bisogna aggiungere poi che molte parole corte usate in inglese sono state inventate appositamente, ma non esistevano nella lingua correttamente parlata: “internet” è una contrazione di “international network”, “blog” è una sintesi di “web log” che in italiano sarebbe “diario in rete” o più semplicemente “diario”. Se fosse ancora vivo Gabriele d’Annunzio probabilmente si sbizzarrirebbe nel creare parole nuove in italiano; magari “blog” diventerebbe “diarettino”, che dà contemporaneamente l’idea del diario e della rete.

Il fatto è che attualmente, nella “serva Italia”, se non dimostri di sapere l’inglese non sei nessuno; nella “nave senza nocchiere, in gran tempesta” per dirla con il nostro padre Dante (1), sapere l’inglese è considerato assolutamente necessario per poter essere ritenuti persone di cultura. E così l’acronimo SUA viene utilizzato solo dal prof. Marinelli e da pochi altri. Come l’acronimo RUGBIN (Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord), perfetto per definire tale Stato e peraltro inventato da uno dei miei studenti di Corsico. Sarebbe giusto almeno dire, invece di UK (United Kingdom), RU (Regno Unito), ma anche qui il suggerimento della parola “rutto” probabilmente ne scoraggia l’uso.

Ma gli esempi sono moltissimi: dalla parola “step” che viene usata a piene mani invece di “passaggio” o “fase” (anch’essa di quattro lettere), al mitico “lockdown” invece di “chiusure”, “performance” invece di “prestazione”, che hanno la stessa lunghezza, etc. etc. E che dire delle parole latine che vengono scambiate per anglosassoni? “Sponsor” in latino significa “garante”; “media” in latino significa “mezzi”, e alcune parole latine sono direttamente entrate nella lingua italiana, come “virus” “tutor”, “plus” (che le persone ignoranti pronunciano “vairus”, “tiutor”, “plas”, applicando la pronuncia anglicana alle parole latine).

Insomma, è una nobile gara all’asservimento culturale da parte di una Nazione che di cultura ne ha da vendere, come la nostra. Dovremmo al contrario riscoprire la nostra storia, la nostra tradizione e soprattutto la bellezza della nostra lingua, del “bel Paese ove il sì sona”(2).

1)      “Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello!” Purgatorio, canto VI, vv. 76-78)

2)      Inferno, canto XXXIII, v. 80;

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