Norman G. Finkelstein
L'industria dell'Olocausto
Lo sfruttamento della
sofferenza degli ebrei
(2002)
AARGH
Rizzoli
Proprietà letteraria riservata C 2000 Norman G.
Finkelstein 0 2002 RCS Libri Sp-4.,
Milano
ISBN 88-17-86827-2
Titolo originale dell'opera: The Holocaust Industry
Prima edizione. settembre 2002
Traduzione di Daria Restani
Traduzione dal tedesco e dall'inglese delle Appendici
di Roberta Zuppet
Realizzazione editoriale. Abracadabra s.n.c., Milano
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qualsiasi mezzo di espressione li si faccia> (Dichiarazione internazionale
dei Diritti dell'Uomo, adottata dall'Assemblea generale dell'ONU a Parigi il 10
dicembre 1948).
Indice
Ringraziamenti................................................................................................................4
Introduzione....................................................................................................................5
Capitolo 1: Il profitto dell'olocausto
................................................................................8
Capitolo 2: Truffatori, venditori e storia
........................................................................28
Chapitolo 3: La duplice estorsione
................................................................................54
Conclusione
..................................................................................................................94
Appendici sugli ultimi
avvenimenti...............................................................................98
Testi citati nel volume apparsi in edizione
italiana.......................................................130
«A me sembra che l'Olocausto venga venduto, più che
insegnato.»
RABBi ARNOLD JACOB WOLF Hillel Director, Yale University (1)
Ringraziamenti
Colin Robinson, della Verso, ha avuto l'idea di
questo libro. Roane Carey ha dato veste narrativa alle mie riflessioni. A ogni
stadio della produzione del libro, Noam Chomsky e Shifta Stern hanno offerto il
loro contributo. Jennifer Loewenstein ed Eva Schweitzer hanno riveduto
criticamente diverse stesure. Rudolph Baldeo mi ha dato il suo sostegno e
incoraggiamento personale. Sono in debito con tutti loro. Con queste pagine
tento di dare voce al lascito dei miei genitori. Il libro è quindi dedicato ai
miei due fratelli, Richard ed Henry, e a mio nipote David.
[9]
Introduzione
Questo libro si propone di essere un'anatomia
dell'Industria dell'Olocausto e un atto d'accusa nei suoi confronti. Nelle
pagine che seguono, dimostrerò che «l'Olocausto» è una rappresentazione
ideologica dell'Olocausto nazista (2). Come la maggior parte delle ideologie,
mantiene un legame, per quanto labile, con la realtà. L'Olocausto non è un
concetto arbitrario, si tratta piuttosto di una costruzione intrinsecamente
coerente, i cui dogmi-cardine sono alla base di rilevanti interessi politici e
di classe. Per meglio dire, l'Olocausto ha dimostrato di essere un'arma
ideologica indispensabile grazie alla quale una delle più formidabili potenze
militari del mondo, con una fedina terrificante quanto a rispetto dei diritti
umani, ha acquisito lo status di «vittima», e lo stesso ha fatto il gruppo
etnico [10] di maggior successo negli Stati Uniti. Da questo specioso status di
vittima derivano dividendi considerevoli, in particolare l'immunità alle
critiche, per quanto fondate esse siano. Aggiungerei che coloro che godono di
questa immunità non sono sfuggiti alla corruttela morale che di norma
l'accompagna. Da questo punto di vista, il ruolo di Elie Wiesel come interprete
ufficiale dell'Olocausto non è un caso. Per dirla francamente, non è arrivato
alla posizione che occupa grazie al suo impegno civile o al suo talento
letterario (3): Wiesel ha questo ruolo di punta perché si limita a ripetere
instancabilmente i dogmi dell'Olocausto, difendendo di conseguenza gli
interessi che lo sostengono.
Lo stimolo iniziale per questo libro è stato uno
studio fondamentale di Peter Novick, The
Holocaust in American Life [L'Olocausto nella vita americana], che ho
recensito per una rivista letteraria inglese. (4) Le pagine che seguono sono
pervase del dialogo critico che ho avviato con Novick e ciò spiega la messe di
riferimenti al suo studio. Più un insieme di intuizioni provocatorie che un
saggio critico strutturato, The Holocaust
in American Life si colloca nel solco della venerabile tradizione americana
della denuncia di scandali. Ma, come la maggior parte dei cacciatori di
scandali, Novick si concentra solamente sugli abusi più clamorosi. Per quanto
pungente e piacevole in molti punti, The
Holocaust in American Life non è una critica radicale. Gli as[11]sunti di
base non vengono messi in discussione. Pur rimanendo all'interno dell'orizzonte
delle opinioni tradizionali, il libro, né scontato né eretico, si colloca agli
estremi margini di questo stesso orizzonte, su posizioni controverse e, come
prevedibile, ha avuto una vasta eco, suscitando commenti sia positivi sia
negativi sui media americani.
La categoria analitica centrale di Novick è la
«memoria». Attualmente di gran moda tra gli intellettuali, il concetto di
«mernoria» è senza dubbio il più impoverito fra quelli prodotti negli ultimi
anni dal mondo accademico. Con l'allusione d'obbligo a Maurice Halbwachs,
Novick mira a dimostrare come la «memoria dell'Olocausto» sia stata forgiata da
«preoccupazioni di oggi». C'era un tempo in cui gli intellettuali
dell'opposizione mettevano in campo robuste categorie politiche come «potere»,
«interessi» da una parte e «ideologia» dall'altra. Tutto quello che resta oggi
è il fiacco, spoliticizzato linguaggio di «preoccupazioni» e «memoria». Eppure,
data la documentazione che Novick adduce, la memoria dell'Olocausto è una
costruzione ideologica elaborata sulla base di precisi interessi. Secondo
Novick, per quanto scelta, la memoria dell'Olocausto è «il più delle volte»
arbitraria; questa scelta, cioè, non verrebbe tanto condotta in base a un
«calcolo di vantaggi e svantaggi», quanto piuttosto «senza dare troppo peso...
alle conseguenze». (5) Al di là di queste sue parole, però, la
do[12]cumentazione che lui stesso raccoglie suggerisce la conclusione opposta.
Il mio interesse nei confronti dell'Olocausto
nazista prese le mosse da vicende personali. Mia madre e mio padre erano dei
sopravvissuti al ghetto di Varsavia e ai campi di concentramento. Tranne loro,
tutti gli altri membri dei due rami della mia famiglia furono sterminati dai
nazisti. Il mio primo ricordo, per così dire, dell'Olocausto nazista è l'immagine
di mia madre incollata davanti al televisore a seguire il processo ad Adolf
Eichmann (1961) quando io rientravo a casa da scuola. Anche se erano stati
liberati dai campi solamente sedici anni prima del processo, nella mia mente un
abisso incolmabile separò sempre i genitori che conoscevo da quella cosa. A una parete del soggiorno
erano appese fotografie di parenti di mia madre. (Nessuna foto della famiglia
di mio padre sopravvisse alla guerra.) In pratica non riuscii mai a mettere in
relazione me stesso con quelle facce, men che mai a immaginare quello che era
successo. Erano le sorelle, il fratello e i genitori di mia madre, non le mie
zie, mio zio e i miei nonni. Ricordo di avere letto da bambino The Wall [Il muro di Varsavial, di John Hersey, e Mila 18, di Leon Uris, due romanzi ambientati nel ghetto di
Varsavia. (Mi torna alla mente mia madre che si lamentava perché, immersa nella
lettura di The Wall aveva sbagliato
fermata andando al lavoro.) Per quanto mi sforzassi, non riuscii [13] mai,
nemmeno per un istante, a fare quel salto d'immaginazione che saldava i miei
genitori, con tutta la loro normalità, a quel passato. Francamente, non ci
riesco neanche ora.
Ma il punto più importante è un altro: se si esclude
questa presenza spettrale, non ricordo intrusioni dell'Olocausto nazista nella
mia infanzia e la ragione principa
le sta nel fatto che a nessuno,
fuori della mia famiglia, sembrava interessare quello che era accaduto. I miei
amici di gioventù leggevano di tutto e discutevano
appassionatamente degli avvenimenti contemporanei, eppure, in
tutta onestà, non ricordo un solo amico (o un suo genitore) che abbia fàtto una
sola domanda su quello che mia madre e mio padre avevano passato. Non era un
silenzio dettato dal rispetto, era semplice indifferenza. Sotto questa luce,
non si possono che accogliere con scetticismo le manifestazioni di dolore dei
decenni seguenti, quando era ormai consolidata.
A volte penso che la «scoperta» dell'Olocausto
nazista da parte dell'ebraismo americano sia stata peggiore del suo oblio. I
miei genitori continuavano a ripensarci nel loro Privato e la sofferenza che
patirono non ricevette pubblici riconosciment
i. Ma non fu forse meglio dell'attuale, volgare
sfruttamento del martirio degli ebrei? Prima che l'Olocausto nazista divenisse
l'Olocausto, sull'argomento furono pubblicati solo pochi [14] studi
scientifici, come The Destruction ofThe
European jews [La distruzione degli
ebrei d'Europa], di Raul Hilberg, e testimonianze come Man's Search for Meaning [Alla
ricerca di un significato della vita], di Viktor Frankl, e Prisoners of Fear [Prigionieri della paura], di Ella Lingens-Reiner. (6) Eppure questa
piccola raccolta di gemme è migliore degli scaffali di cianfrusaglie che ora
affollano biblioteche e librerie.
I miei genitori, pur rivivendo giorno dopo giorno il
passato fino alla fine della loro vita, negli ultimi anni persero interesse per
l'Olocausto come pubblico spettacolo. Uno degli amici di più lunga data di mio
padre era stato con lui ad Auschwitz ed era, o almeno sembrava, un
incorruttibile idealista di sinistra che per principio rifiutò dopo la guerra
il risarcimento tedesco. In seguito divenne un dirigente del museo israeliano
dell'Olocausto, lo Yad Vashem. Con riluttanza e sinceramente deluso, mio padre
dovette ammettere che perfino un uomo come quello era stato corrotto
dall'industria dell'Olocausto, adattando le proprie idee al potere e al
profitto. Dal momento che l'interpretazione dell'Olocausto assumeva forme
sempre più assurde, a mia madre piaceva citare, non senza ironia, Henry Ford:
«La storia è una sciocchezza». I racconti dei «sopravvissuti all'Olocausto»
(tutti prigionieri dei campi di concentramento, tutti eroi della resistenza) a
casa mia erano una fonte particolare di amaro divertimento. D'al[15]tronde già
molto tempo fa John Stuart Mill aveva compreso che «le verità se non sottoposte
a continua revisione, cessano di essere verità. E, attraverso le esagerazioni,
diventano falsità».
Mio padre e mia madre si chiesero
spesso perché m'indignassi di fronte alla falsificazione e allo sfruttamento
del genocidio perpetrato dai nazisti. La risposta più ovvia è che è stato usato
per giustificare la politica criminale dello Stato d'Israele e il sostegno
americano a tale politica. Ma c'è anche un motivo personale. Ho infatti a cuore
che si conservi la memoria della persecuzione della mia famiglia. L'attuale
campagna dell'industria dell'Olocausto per estorcere denaro all'Europa in nome
delle «vittime bisognose dell'Olocausto» ha ridotto la statura morale del loro
martirio a quella di un casinò di Montecarlo. Ma anche tralasciando queste
preoccupazioni, resto convinto che sia importante preservare l'integrità della
ricostruzione storica e lottare per difenderla. Alla fine di questo libro
sostengo che nello studio dell'Olocausto nazista possiamo imparare molto non
solamente riguardo ai «tedeschi» o ai «gentili», ma a noi tutti. Eppure penso
che per fare questo, cioè per imparare sinceramente dall'Olocausto nazista,
occorra ridurre la sua dimensione fisica ed enfatizzarne quella morale. Troppe
risorse pubbliche e private sono state investite nella commemorazione del
genocidio e gran parte di questa produzione è indegna, un tributo [16] non alla
sofferenza degli ebrei, ma
all'accrescimento del loro prestigio. È da tempo che
dobbiamo aprire il nostro cuore alle altre sofferenze dell'umanità: questa è la
lezione più importante impartitami da mia madre. Non l'ho mai sentita dire:
«Non fare paragoni». Lei li fece sempre.
Certo si devono fare distinzioni storiche, ma porre distinzioni morali tra la
«nostra» sofferenza e la «loro» è a sua volta un travisamento morale. «Non
potete mettere a confronto due sventurati» osservò Platone «e dire quale dei
due sia più felice.» Di fronte alle sofferenze degli afroamericani, dei
vietnamiti e dei palestinesi, il credo di mia madre fu sempre: siamo tutti
vittime dell'Olocausto.
Norman G. Finkelstein Aprile 2000 New York [19]
CAPITOLO I
IL PROFITTO DELL'OLOCAUSTO
[21] In una memorabile controversia di qualche anno
fa, Gore Vidal accusò di antiamericanismo Norman Podhoretz, all'epoca direttore
di «Commentary», la pubblicazione dell'American Jewish Committee. (7 )La prova
consisteva nel fatto che Podhoretz attribuiva minore importanza alla Guerra
Civile («l'unico, grande evento tragico che continua a dare risonanza alla
nostra repubblica») che alle questioni ebraiche. Ma Podhoretz era probabilmente
più americano del suo accusatore, perché a quell'epoca era la «guerra contro
gli ebrei» combattuta dal nazismo e non la «guerra tra gli Stati» ad apparire
centrale nella vita culturale americana. La maggior parte dei professori di
college può testimoniare che, in confronto alla Guerra Civile, molti più
studenti sono in grado di collocare l'Olocausto nazista nel secolo giusto e in
linea di massima di indicare il numero di vittime esatto. In effetti, questo è
quasi l'unico ri[22]ferimento storico che oggi risuoni in un'aula
universitaria. I sondaggi mostrano che sono molti di più gli americani che
sanno identificare l'Olocausto piuttosto che Pearl Harbor o le bombe atomiche
sul Giappone.
Eppure, fino a tempi abbastanza recenti, l'Olocausto
nazista era quasi assente dalla vita americana. Tra la fine della Seconda
guerra mondiale e quella degli anni Sessanta, solo un esiguo numero di libri e
di film toccò l'argomento e in tutti gli Stati Uniti si teneva un unico corso
universitario espressamente dedicato a esso. (8) Quando, nel 1963, Hannah
Arendt pubblicò Eichmann in Jerusalem. A
Report on the Banality of Evil [La
banalità del male. Eichmann a Gerusalemme], poté attingere solamente a due
studi in lingua inglese: The Final
Solution [La soluzione finale. Il
tentativo di sterminio degli ebrei d'Europa, 1939-1945], di Gerald
Reitlinger, e The Destruction of the
European jews, di Raul Hilberg. (9) Lo stesso capolavoro di Hilberg dovette
faticare per vedere la luce. Il suo relatore alla Columbia University, l'ebreo
tedesco Franz Neumann, studioso di teoria sociale, cercò di dissuadere energicamente
Hilberg dallo scrivere sull'argomento («È il tuo funerale») e nessuna
università o editore tradizionale volle toccare il manoscritto. Quando fu
finalmente pubblicato, The Destruction of
the European Jews ricevette poche recensioni, per lo più critiche (10).
Non soltanto gli americani in generale, ma anche gli
[23] ebrei americani, intellettuali compresi, prestarono poca attenzione
all'Olocausto nazista. In un'autorevole indagine del 1957, il sociologo Nathan
Glazer riportò che la Soluzione Finale nazista (così come la nascita di
Israele) «aveva avuto ben poche ripercussioni sulla vita interiore della
comunità ebraica americana». In un convegno organizzato nel 1961 da
«Commentary» sul tema «L'ebraismo e i giovani intellettuali», soltanto due dei trentuno
partecipanti misero in rilievo il suo impatto. Allo stesso modo, in una tavola
rotonda organizzata nel medesimo anno dal periodico «Judaism» sul tema «La mia
affermazione di ebraismo», alla quale parteciparono ventuno ebrei americani
osservanti, l'argomento venne pressoché ignorato. (11) Né monumenti né tributi
ricordarono l'Olocausto nazista negli Stati Uniti; anzi, le principali
organizzazioni ebraiche si opposero a questa commemorazione. La domanda è:
perché?
La spiegazione più comune è che gli ebrei furono
traumatizzati dal genocidio e di conseguenza ne rimossero la memoria, ma è una
teoria senza prove. Certamente, alcuni sopravvissuti non vollero, proprio per
quel motivo allora o negli anni successivi, ricordare quello che era successo.
Molti altri, però, avevano una gran voglia di parlare e, una volta che si
presentò l'occasione, non smisero più (12). Il problema era che gli americani
non avevano voglia di ascoltare.
Le vere ragioni del silenzio pubblico sull'Olocausto
[24] nazista erano la politica conformista della leadership della comunità
ebraica americana e il clima politico dell'America postbellica. Sia nella
politica interna sia in quella estera le élite ebraiche americane (13) si
uniformarono alle posizioni ufficiali degli Stati Uniti. Questo atteggiamento
in effetti facilitò gli obiettivi tradizionali di assimilazione e accesso al
potere. Con l'inizio della Guerra Fredda, le organizzazioni ebraiche
tradizionali assunsero un atteggiamento ancora più risoluto. Le élite ebraiche
americane «dimenticarono» l'Olocausto nazista perché la Germania (cioè la
Germania Federale, dal 1949) divenne nel dopoguerra un alleato fondamentale
degli Stati Uniti nel confronto con l'Unione Sovietica. Rivangare il passato,
oltre a essere inutile, complicava le cose.
Con minime riserve (subito peraltro superate), le
maggiori organizzazioni ebraiche americane si adeguarono velocemente alla linea
del governo degli Stati Uniti, che sosteneva una Germania riarmata e quasi per
nulla denazificata. L'American Jewish Committee (AJC), nel timore che «ogni
opposizione organizzata degli ebrei americani contro la nuova politica estera e
la sua strategia potesse isolarli agli occhi della maggioranza non ebraica e
compromettere i risultati ottenuti sulla scena politica nazionale dopo la
guerra», fu il primo a elogiare le virtù del riallineamento. Il filosionista
Congresso Mondiale Ebraico (CME) e la sua sezione [25] americana rinunciarono a
opporsi dopo avere siglato accordi di compensazione con la Germania nei primi
anni Cinquanta, mentre l'Anti-Defamation League (ADL) fu la prima importante
organizzazione ebraica a inviare una delegazione ufficiale in Germania, nel
1954. Insieme, queste organizzazioni collaborarono con il governo di Bonn per
contenere l'«onda antitedesca» del sentimento popolare ebraico (14).
La Soluzione Finale era un argomento-tabù per le
élite ebraiche americane anche per un altro motivo. Gli ebrei di sinistra, che
durante la Guerra Fredda erano contrari a schierarsi con la Germania contro
l'Unione Sovietica, continuavano a battere su quel tasto. Il semplice ricordare
l'Olocausto nazista fu etichettato come un atteggiamento comunista. Legate allo
stereotipo che associava ebrei e sinistra (in effetti, gli ebrei incisero per
circa un terzo sul voto al candidato progressista Henry Wallace alle elezioni
presidenziali del 1948), le élite ebraiche americane non si fecero problemi a
sacrificare i compagni ebrei sull'altare dell'anticomunismo. Mettendo a
disposizione delle agenzie governative i loro elenchi di ebrei in odore di
sovversione, l'AJC e l'ADL, collaborarono attivamente alla caccia alle streghe
dell'era McCarthy. L'AJC si pronunciò a favore della condanna a morte dei
Rosenberg mentre «Commentary», la rivista mensile del comitato, sosteneva in un
editoriale che i due non erano veramente
ebrei.
[26] Temendo di essere associate alla sinistra tanto
all'estero quanto in patria, le organizzazioni ebraiche tradizionali si
rifiutarono di collaborare con le forze socialdemocratiche e antinaziste
tedesche, così come si opposero ai boicottaggi di prodotti tedeschi e alle
manifestazioni contro gli ex nazisti in territorio americano. D'altro canto,
dissidenti tedeschi di primo piano in visita negli Stati Uniti, come il pastore
protestante Martin Niemöller, che aveva passato otto anni nei campi di
concentramento nazisti e ora era schierato contro la crociata anticomunista,
dovettero sopportare gli insulti dei leader della comunità ebraica americana.
Ansiosi di arricchire le loro credenziali anticomuniste, le élite ebraiche
diedero il proprio appoggio e sostennero finanziariamente perfino
organizzazioni dell'estrema destra come la All-American Conference to Combat
Communism e chiusero un occhio quando veterani delle SS misero piede in America
(15).
Ansiose anche d'ingraziarsi le élite dominanti
americane e di dissociarsi dalla sinistra ebraica, le organizzazioni ebraiche
americane evocarono l'Olocausto nazista in un contesto tutto particolare: per
denunciare l'Unione Sovietica. «La politica [antisemita] sovietica offre opportunità
che non devono essere trascurate» annota compiaciuto un memorandum interno
dell'AJC citato da Novick «per rafforzare determinati aspetti del programma
nazionale dell'AJC.» Come era [27] ovvio, questo significava equiparare la
Soluzione Finale nazista all'antisemitismo russo. «Stalin riuscirà là dove Hitler
ha fallito» preannunciava cupamente «Commentary». «Annienterà gli ebrei
dell'Europa centrale e orientale []. Il parallelo con la politica di sterminio
dei nazisti è quasi completo.» Le principali organizzazioni ebraiche americane
arrivarono a denunciare l'invasione sovietica dell'Ungheria nel 1956 come
«solamente il primo passo verso una Auschwitz russa» (16).
Con la guerra arabo-israeliana del giugno 1967 tutto
cambiò. È opinione comune che solamente in seguito a questo conflitto
l'Olocausto divenne un punto fermo nella vita degli ebrei americani (17). La
spiegazione più diffusa di questa svolta fu che il totale isolamento e la
vulnerabilità di Israele nel corso della guerra dei Sei Giorni fecero rivivere
la memoria dello sterminio nazista. In effetti, questa interpretazione distorce
tanto la realtà dei rapporti di forza nel Medio Oriente a quell'epoca quanto
l'evoluzione delle relazioni tra le élite ebraiche americane e Israele.
Negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale
le principali organizzazioni ebraiche avevano minimizzato l'importanza
dell'Olocausto nazista per conformarsi alle priorità della Guerra Fredda
dettate dal governo americano; allo stesso modo, anche ora il loro
atteggiamento nei confronti di Israele fu rapido a confor[28]marsi. Da subito,
le élite ebraiche guardarono con profonda apprensione alla nascita di uno Stato
ebraico: il loro principale timore era che la sua esistenza avrebbe portato a
un'accusa nei loro confronti di «doppia fedeltà» e, quando la Guerra Fredda
s'intensificò, queste paure si moltiplicarono. Ancora prima della fondazione
d'Israele, i leader ebrei americani espressero la preoccupazione che la sua
dirigenza, in gran parte proveniente dall'Est europeo, tradizionalmente
progressista, avrebbe scelto il campo sovietico. Nonostante alla fine avessero
abbracciato la campagna sionista a favore della creazione di uno Stato, le
organizzazioni ebraiche americane si rivelarono caute e si tennero sulla
lunghezza d'onda dei segnali provenienti da Washington. In realtà, l'appoggio
dell'AJC alla fondazione d'Israele fu motivato soprattutto dal timore di una
reazione interna contro gli ebrei, che si sarebbe potuta scatenare nel caso non
si fosse giunti a una rapida soluzione del problema degli esuli ebrei in Europa
(18). Nonostante Israele, immediatamente dopo la sua fondazione, si fosse
schierato con l'Occidente, molti israeliani dentro e fuori l'amministrazione
conservarono un forte legame con l'Unione Sovietica e, come era prevedibile, i
leader della comunità ebraica americana tennero Israele a distanza.
Dal 1948, anno della sua fondazione, fino alla
guerra del giugno 1967, Israele non fu una pedina centrale [29] sullo
scacchiere americano. Quando la dirigenza degli ebrei di Palestina si accinse a
istituire il nuovo Stato, il presidente Truman temporeggiò, soppesando
considerazioni di politica interna (il voto ebraico) e i segnali d'allarme del
Dipartimento di Stato (il sostegno a uno Stato ebraico avrebbe alienato il
mondo arabo). Per salvaguardare gli interessi americani in Medio Oriente,
l'amministrazione Eisenhower alternò l'appoggio a Israele con quello alle
nazioni arabe, favorendo comunque queste ultime.
Gli intermittenti scontri politici tra Stati Uniti e
Israele culminarono nella crisi di Suez del 1956, quando gli israeliani si
accordarono con Gran Bretagna e Francia per attaccare il leader nazionalista
egiziano Gamal Abdel Nasser. Benché la fulminea vittoria israeliana e la
conquista della penisola dei Sinai ne avessero rivelato il potenziale
strategico al mondo, gli Stati Uniti continuarono a considerarlo come una delle
tante pedine dell'area. Così, il presidente Eisenhower costrinse Israele a
ritirarsi dal Sinai pressoché incondizionatamente. Durante la crisi, i leader
ebrei americani spalleggiarono per breve tempo gli sforzi israeliani di
strappare concessioni agli americani, ma in ultima analisi, come ricorda Arthur
Hertzberg, «preferirono consigliare a Israele di dare retta [a Eisenhower] piuttosto
che opporsi alla volontà del leader statunitense» (19).
[30] Tranne che come occasionale destinatario delle
loro donazioni, dopo la fondazione fu come se Israele si eclissasse alla vista
degli ebrei americani: per loro non era importante. Nella sua indagine del
1957, Nathan Glazer osservò che Israele «aveva ben poche ripercussioni sulla
vita interiore della comunità ebraica americana» (20). I membri della Zionist
Organization of America, da centinaia di migliaia che erano nel 1948, si
ridussero a decine di migliaia negli anni Sessanta. Prima del giugno 1967,
solamente un ebreo americano su venti si dichiarava interessato a visitare
Israele. Nel 1956, la comunità ebraica diede un importante contributo alla
rielezione di Eisenhower, che aveva appena costretto Israele all'umiliante
ritiro dal Sinai. All'inizio degli anni Sessanta, Israele dovette anche
affrontare una forte reprimenda da parte di settori dell'élite ebraica per il
rapimento di Eichmann: fra i critici si distinsero Joseph Proskauer, ex presidente
dell'AJC, Oscar Handlin, docente di Storia ad Harvard, e il «Washington Post»,
di proprietà ebraica. «Il rapimento di Eichmann» sostenne Erich Fromm «è un
atto di un'illegalità dello stesso identico genere di quello di cui si sono
macchiati [...] i nazisti. (21_»
Indipendentemente dall'appartenenza politica, gli
intellettuali ebrei americani si mostrarono indifferenti al destino d'Israele.
Studi approfonditi del mondo intellettuale della sinistra progressista ebraica
risalenti [31] agli anni Sessanta fanno a malapena il nome d'Israele (22).
Appena prima della guerra dei Sei Giorni, l'AJC promosse un convegno sul tema
«L'identità ebraica qui e ora»: solamente tre delle trentuno «menti più
brillanti della comunità ebraica» fecero riferimento a Israele, e due di loro
per liquidarne la rilevanza (23). Per ironia della sorte, gli unici due
intellettuali ebrei a creare un legame con Israele prima del 1967 furono Hannah
Arendt e Noam Chomsky (24).
Poi arrivò la guerra dei Sei Giorni. Colpiti
dall'impressionante spiegamento di forze israeliano, gli Stati Uniti si mossero
per farne una loro risorsa strategica. (Già prima del conflitto, l'America
aveva con cautela cominciato a pendere verso Israele di fronte alle politiche
sempre più indipendenti imboccate dai regimi di Egitto e di Siria alla metà
degli anni Sessanta.) Il sostegno militare ed economico cominciò ad affluire
quando Israele si trasformò in un procuratore del potere americano in Medio
Oriente.
Per le élite ebraiche americane la subordinazione israeliana
al potere statunitense fu una fortuna inaspettata. Il sionismo era nato dal
presupposto che l'assimilazione fosse una chimera e che gli ebrei sarebbero
sempre stati percepiti come un corpo estraneo potenzialmente pronto a tradire.
Per sciogliere il nodo gordiano, i sionisti
pensarono di creare una patria per gli ebrei, ma in realtà la fondazione
d'Israele rese più acuto il proble[32]ma, se non altro per gli ebrei della
diaspora, in quanto dava espressione istituzionale all'accusa di doppia
fedeltà. Paradossalmente, dopo il giugno 1967, Israele facilitò l'assimilazione
negli Stati Uniti: gli ebrei ora erano in prima linea a difendere l'America (o
meglio l'«Occidente civilizzato») contro le orde barbariche degli arabi. Se
prima del 1967 Israele incarnava lo spauracchio della doppia fedeltà, ora era
il simbolo della superfedeltà: dopo tutto erano israeliani, e non americani,
quelli che combattevano e morivano per proteggere gli interessi statunitensi e,
diversamente dai soldati americani in Vietnam, i militari israeliani non si facevano
umiliare da una banda di ultimi arrivati del Terzo Mondo (25).
E così, le élite ebraiche americane all'improvviso
scoprirono Israele. Dopo la guerra del 1967, l'impeto del suo esercito poté
essere celebrato perché i suoi cannoni erano puntati nella giusta direzione,
cioè contro i nemici dell'America. Il suo valore militare poteva persino
rendere più agevole l'accesso alla stanza dei bottoni del potere americano. Se
in precedenza le élite ebraiche potevano offrire solamente scarni elenchi di
ebrei sovversivi, ora erano in grado di porsi come gli interlocutori naturali
della più recente risorsa strategica americana e da pedine guadagnarsi un ruolo
di primo piano nel gran teatro della Guerra Fredda. Israele divenne una risorsa
non solo per l'America ma per lo stesso ebraismo americano.
[33] In un libro di memorie pubblicato appena prima
della guerra dei Sei Giorni, Norman Podhoretz ricordò con un certo senso di
vertigine di avere partecipato a una cena di Stato alla Casa Bianca dove «non
c'era una sola persona che non fosse visibilmente e assolutamente fuori di sé
dalla gioia di essere lì». (26) Benché fosse già direttore di «Commentary», il
più importante periodico della comunità ebraica amerìcana, questo suo libro
contiene un'unica, fugace allusione a Israele. D'altro canto, che cosa aveva da
offrire quest'ultimo a un ambizioso ebreo americano? In un saggio successivo,
Podhoretz sottolineò come, dopo la guerra del giugno 1967, Israele fosse
divenuto «la religione degli ebrei americani» (27). Diventato sostenitore di
spicco dello Stato ebraico, Podhoretz poteva vantarsi non semplicemente di
avere partecipato a una cena alla Casa Bianca, ma di avere incontrato il
presidente in un tête-à-tête per discutere di questioni di interesse nazionale.
Dopo la guerra dei Sei Giorni, le principali
organizzazioni ebraiche americane lavorarono a pieno ritmo per rendere più
salda l'alleanza tra America e Israele. Nel caso dell'ADL, questo comportò
un'ampia operazione di sorveglianza interna svolta di concerto con i servizi
segreti israeliani e sudafricani (28). Dopo il giugno 1967, sul «New York
Times» lo spazio dedicato a Israele crebbe in maniera esponenziale. Sul suo
indice del 1955 e su quello del 1965, i rimandi alla voce «Israele» occupava[34]no
ciascuno meno di un quarto dello spazio che il «New York Times Index» dedicò
loro nel 1975. «Quando ho voglia di tirarmi un po' su» osservava Elie Wiesel
nel 1973 «guardo le notizie su Israele sul "New York Times".» (29)
Come Podhoretz, molti intellettuali della tradizione ebraico-americana dopo la
guerra dei Sei Giorni scoprirono altrettanto improvvisamente la «religione»
Israele. Novick racconta che Lucy Dawidowicz, la decana della letteratura
sull'Olocausto, un tempo era stata «aspramente critica nei confronti
d'Israele». Nel 1953, aveva dichiarato senza mezzi termini che gli israeliani
non avevano il diritto di chiedere risarcimenti alla Germania finché eludevano
le responsabilità nei confronti dei profughi palestinesi: «Non esistono due
pesi e due misure». Eppure, subito dopo il conflitto, Dawidowicz diventò una
«fervida sostenitrice d'Israele», salutandolo come «incarnazione del paradigma
dell'immagine ideale dell'ebreo nel mondo moderno». (30)
I sionisti, rinati dopo la guerra del 1967, contrapponevano
tacitamente l'esplicito sostegno dato a un Israele sotto assedio alla
vigliaccheria mostrata dagli ebrei americani di fronte all'Olocausto nazista.
In realtà, stavano facendo esattamente quello che le élite ebraiche d'America
avevano sempre fatto: andare di pari passo con il potere statunitense. Le
classi colte si rivelarono particolarmente esperte nell'assumere atteggiamenti
eroici. Si consideri il caso di Irving Howe, il noto stu[35]dioso appartenente
alla sinistra progressista. Nel 1956, «Dissent», la rivista che Howe dirigeva,
condannò «l'attacco combinato contro l'Egitto» come «immorale». Nonostante si
trovasse effettivamente solo, Israele fu anche tacciato di «sciovinismo
culturale», di avere un «senso paramessianico del destino manifesto» (31) e di
«tendenza latente all'espansionismo». (32) Dopo la guerra dell'ottobre 1973,
quando il sostegno americano a Israele raggiunse il suo apice, Howe pubblicò un
proprio appello «traboccante di ansia intensissima» a favore dell'isolato
Israele. Il mondo non ebraico, si lamentava in una parodia alla Woody Allen,
affogava nell'antisemitismo e persino nell'Upper Manhattan Israele «non è più
chic»: tutti, tranne lui, erano alla mercé di Mao, di Frantz Fanon e di Che
Guevara. (33)
In quanto pedina strategica degli Stati Uniti,
Israele non era esente da critiche. Oltre alla sempre più pressante censura
della comunità internazionale rivolta al suo rifiuto di negoziare un accordo
con gli arabi secondo le risoluzioni delle Nazioni Unite e al suo smaccato
sostegno alle ambizioni del governo statunitense, che perseguiva una politica
di controllo su base planetaria, (34) Israele dovette anche vedersela con il
dissenso interno americano. Nei circoli dominanti statunitensi, i fautori di
una politica filoaraba sostenevano che puntare tutto su questo Stato e ignorare
le élite arabe minava gli interessi nazionali americani.
[36]
C'era chi argomentava che la sottomissione
d'Israele al potere americano e l'occupazione dei vicini Stati arabi non solo
erano sbagliate in linea di principio, ma anche dannose per gli stessi
interessi israeliani, in quanto Israele sarebbe stato sempre più militarizzato
e isolato dal mondo arabo. Comunque, per gli ebrei americani, nuovi sostenitori
d'Israele, discorsi di questo genere sfioravano l'eresia: un Israele
indipendente e in pace con i propri vicini era privo di valore, un Israele
sulla stessa lunghezza d'onda del mondo arabo, alla ricerca dell'indipendenza
dagli Stati Uniti rappresentava un disastro. Israele poteva esistere soltanto
come una specie di Sparta legata al potere americano, perché solamente in quel
caso i leader della comunità ebraica statunitense potevano presentarsi come i
portavoce delle ambizioni imperialistiche americane. Noam Chomsky ha suggerito
che questi «sostenitori d'Israele» dovrebbero essere più propriamente chiamati
«sostenitori della degenerazione morale e della distruzione definitiva
d'Israele». (35)
Per proteggere la loro posizione strategica, le
élite ebraiche americane «ricordarono» l'Olocausto. (36) La spiegazione convenzionale
è che lo fecero perché, all'epoca della guerra dei Sei Giorni, pensavano che
Israele stesse correndo un pericolo mortale ed erano quindi in preda alla paura
di un «secondo Olocausto». Questa versione, però, non regge all'analisi.
[37]
Si prenda in considerazione la prima guerra
arabo-israeliana. Alla vigilia dell'independenza del 1948, la minaccia contro
gli ebrei di Palestina appariva di gran lunga più preoccupante. David
Ben-Gurion dichiarò che «settecentomila ebrei» erano «contrapposti a ventisette
milioni di arabi: uno contro quaranta». Gli Stati Uniti parteciparono
all'embargo di armi decretato dalle Nazioni Unite per l'intera area, congelando
una situazione di chiara superiorità negli armamenti da parte degli eserciti
arabi. La paura di un'altra Soluzione Finale attanagliò la comunità ebraica
americana. Deplorando il fatto che gli Stati arabi stavano ora «armando il
tirapiedi di Hitler, il Mufti [di Gerusalemme], mentre gli Stati Uniti
imponevano l'embargo», l'AJC predisse «un suicidio di massa e un olocausto
definitivo in Palestina». Persino George Marshall, il segretario di Stato, e la
CIA previdero, in caso di guerra, la sicura sconfina degli ebrei. (37) Anche se
«alla fine vinse il più forte» (secondo lo storico Benny Morris), per Israele non
fu comunque una passeggiata. Nel corso dei primi mesi di guerra, agli inizi del
1948, e specialmente quando, in maggio, ci fu la dichiarazione d'indipendenza,
le speranze di sopravvivenza del nuovo Stato erano date alla pari da Yigael
Yadin, capo delle operazioni dell'Haganah. Senza un accordo segreto con la
Cecoslovacchia per la fornitura di armi, Israele probabilmente non sarebbe
sopravvissuto. (38) Dopo un [38] anno di combattimenti, contava seimila caduti,
l'uno per cento della sua popolazione. Ma allora perché l'Olocausto non divenne
oggetto dell'attenzione degli ebrei d'America dopo la guerra del 1948?
Nel 1967 Israele dimostrò prontamente di essere
assai meno vulnerabile che nella lotta per l'indipendenza. I leader israeliani
e quelli americani sapevano in anticipo che Israele avrebbe avuto facilmente la
meglio in una guerra contro gli Stati arabi, realtà che divenne chiara ed
evidente quando Israele sconfisse i vicini arabi nell'arco di pochi giorni.
Come annota Novick, «nella mobilitazione degli ebrei americani a favore
d'Israele prima della guerra, è sorprendente quanto pochi siano i riferimenti
espliciti all'Olocausto». (39) L'industria dell'Olocausto fece la propria
apparizione solamente dopo la
dimostrazione schiacciante del predominio militare e fiorì in mezzo al più
totale trionfalismo israeliano. (40) Come conciliare tali anomalie con
l'interpretazione standard?
Gli scioccanti rovesci iniziali e
le pesanti perdite subite durante la guerra arabo-israeliana dell'ottobre 1973,
e il crescente isolamento internazionale che ne seguì, non fecero che
aumentare, secondo le interpretazioni tradizionali, i timori degli ebrei
americani per la vulnerabilità d'Israele. Di conseguenza, la memoria
dell'Olocausto finì sulla ribalta.
Novick registra da par suo: «Tra gli ebrei americani
[ ... ] la presunta situazio[39]ne di un Israele vulnerabile e isolato cominciò
a essere percepita come terribilmente simile a quella degli ebrei d'Europa
trent'anni prima [ ... ] Il riferimento all'Olocausto negli Stati Uniti non
soltanto prese piede, ma divenne una pratica sempre più istituzionalizzata».41
Eppure Israele era stato sull'orlo del baratro e, in termini sia relativi sia
assoluti, aveva avuto molte più perdite nella guerra del 1948 che in quella del
1973.
È vero che, se si eccettua
l'alleanza con gli Stati Uniti, dopo la guerra dell'ottobre 1973 Israele si
ritrovò in disgrazia all'interno della comunità internazionale. Tuttavia,
proviamo a fare il confronto con la guerra di Suez del 1956. Israele e la
comunità ebraica americana asserirono che, alla vigilia dell'invasione del
Sinai, l'Egitto aveva minacciato l'esistenza stessa di Israele, e che un totale
ritiro israeliano dal Sinai avrebbe fatalmente minato «l'interesse fondamentale
d'Israele: la sua sopravvivenza come Stato». (42) Ciò nonostante, la comunità
internazionale restò saldamente sulle proprie posizioni.
Rievocando il suo brillante intervento all'Assemblea
generale delle Nazioni Unite, Abba
Eban ricordò con dispiacere che «dopo aver
applaudito calorosamente il discorso [l'Assemblea] votò contro di noi a larga
maggioranza». (43) Gli Stati Uniti ebbero un ruolo di primo piano in questo
consenso generale. Non soltanto Eisenhower costrinse Israele al ritiro, ma il
sostegno pubblico americano a Israele subì uno [40] «spaventoso tracollo»
commenta lo storico Peter Grose. (44) Per contro, subito dopo la guerra del
1973, gli Stati Uniti fornirono a Israele una massiccia assistenza militare, in
proporzioni maggiori di quella dei quattro anni precedenti messi insieme,
mentre l'opinione pubblica americana sosteneva lo Stato ebraico a spada tratta.
(45) Fu questo il frangente in cui «il riferimento all'Olocausto [ ...] prese
piede in America»: un momento in cui Israele era meno isolato di quanto fosse
stato nel 1956.
In effetti, il motivo per cui venne alla ribalta non
va ricercato nel fatto che le inaspettate battute d'arresto d'Israele nel corso
della guerra dell'ottobre 1973 e il successivo isolamento politico evocarono il
ricordo della Soluzione Finale. Piuttosto. fu la spettacolare dimostrazione
militare di Sadat nella guerra del Kippur a convincere le élite politiche
americane e israeliane che non si poteva più prescindere da un accordo
diplomatico con l'Egitto e dalla restituzione dei territori sottrattigli nel giugno
1967. Per incrementare il potere negoziale israeliano, aumentò la produzione.
Il punto è che, dopo la guerra del 1973, Israele non era isolato dagli Stati
Uniti: questi sviluppi occorsero nel quadro dell'alleanza tra i due Paesi, che
rimase pienamente attiva. (46) L'analisi storica suggerisce con forza che, se
Israele si fosse trovato davvero solo dopo la guerra del 1973, [41] le élite
ebraiche americane non avrebbero ricordato l'Olocausto nazista più di quanto
fecero dopo le guerre del 1948 o del 1956.
Novick fornisce alcune spiegazioni accessorie che
risultano ancora meno convincenti. Citando gli studiosi ebrei di formazione
religiosa, per esempio, suggerisce che «la guerra dei Sei Giorni permise di
elaborare una teologia popolare di "Olocausto e Redenzione"». La
«luce» della vittoria del giugno 1967 riscattava le «tenebre» del genocidio:
«Aveva dato a Dio una seconda possibilità». L'Olocausto poté affiorare nella
vita americana solamente dopo il giugno 1967 perché «l'Olocausto degli ebrei
d'Europa ebbe un esito, se non felice, tale almeno da lasciare spazi alla
vita». Eppure, nella vulgata della
cultura ebraica, non fu la guerra del 1967 ma la fondazione di Israele a
segnare la redenzione. Perché l'Olocausto dovette attendere una seconda redenzione? Novick sostiene che
l'«immagine degli ebrei come eroi guerrieri» nella guerra dei Sei Giorni «ebbe
l'effetto di obliterare lo stereotipo della vittima debole e passiva che [ ...
] in precedenza aveva impedito agli ebrei la discussione dell'Olocausto». (47)
Eppure, quanto a coraggio allo stato puro, la guerra del 1948 fu per Israele
l'ora più bella. E, nel 1956, la «temeraria» e «brillante» campagna di cento
ore nel Sinai di Moshe Dayan prefigurò la vittoria a mani basse dei giugno
1967. Perché, allora, la comu[42]nità ebraica americana ebbe bisogno della
guerra dei Sei Giorni per «obliterare lo stereotipo»?
La spiegazione di Novick di come le élite ebraiche
americane giunsero a strumentalizzare l'Olocausto nazista non è convincente. Si
considerino questi passi significativi:
Quando i leader ebrei americani
cercarono di capire le ragioni dell'isolamento e della vulnerabilità israeliani
(ragioni che potessero suggerire un rimedio), la spiegazione che raccolse il
più ampio consenso fu che l'affievolirsi del ricordo dei crimini nazisti contro
gli ebrei, e l'ingresso in scena di una generazione che ignorava l'Olocausto,
avevano fatto perdere a Israele il sostegno di cui aveva goduto un tempo.
Mentre le organizzazioni ebraiche americane non
erano in grado di modificare il passato prossimo nel Medio Oriente, e potevano
fare ben poco per influenzarne il futuro, potevano
fare in modo di far rivivere il ricordo dell'Olocausto. Così, la spiegazione
del «ricordo che si affievolisce» costituì un punto all'ordine del giorno per
l'azione. (48)
Perché la tesi del «ricordo che si affievolisce» per
la situazione israeliana post-1967 «raccolse il più ampio consenso»? Era senza
dubbio una spiegazione impro[43]babile. Come Novick stesso documenta
doviziosamente, il sostegno che Israele si guadagnò all'inizio ha poco a che
vedere con «il ricordo dei crimini nazisti» (49) e, in ogni caso, questo
ricordo era svanito molto tempo prima che Israele perdesse il sostegno
internazionale. Perché le élite ebraiche potevano «fare ben poco per
influenzare» il futuro d'Israele? È un fatto che controllavano una formidabile
rete di organizzazioni. E perché «far rivivere il ricordo dell'Olocausto»
divenne l'unico punto all'ordine dei giorno? Perché non appoggiare l'accordo
internazionale che chiedeva il ritiro israeliano dai territori occupati nella
guerra del 1967 così come una «pace
giusta e durevole» tra Israele e i suoi vicini arabi (risoluzione Onu numero
242)?
Una spiegazione più coerente,
anche se meno generosa, è che le élite ebraiche americane ricordarono
l'Olocausto nazista prima del giugno 1967 solamente quando fu politicamente
conveniente. Israele, loro nuovo protettore, aveva fatto buon uso
dell'Olocausto nazista durante il processo a Eichmann. (50) Accertatane
l'efficacia, la comunità ebraica americana sfruttò l'Olocausto nazista dopo la
guerra dei Sei Giorni. Una volta rimodellato ideologicamente, l'Olocausto (nel
senso di industria) divenne l'arma perfetta per deviare le critiche nei
confronti d'Israele, come ora dimostrerò. Ciò che merita di essere
sottolineato, in ogni caso, è il fatto che per le élite ebraiche americane
l'Olocausto svolse la [44] stessa funzione che per Israele: un'altra fiche dal
valore incalcolabile in una partita a poker dove si gioca forte. Il dichiarato interesse
per la memoria dell'Olocausto fu qualcosa di studiato a tavolino, così come
quello per il destino d'Israele. (51) Di conseguenza, la comunità ebraica
americana perdonò e dimenticò velocemente la folle dichiarazione di Reagan al
cimitero di Bitburg, nel 1985: secondo l'allora presidente, i soldati tedeschi
lì sepolti (compresi gli appartenenti alle SS) erano
«vittime dei nazisti proprio come le vittime dei campi
di concentramento». Nel 1988,
Reagan venne insignito del premio Humanitarian of
the Year dal Centro Simon Wiesenthal, una delle istituzioni di maggior spicco
tra quelle che si occupano dell'Olocausto, per il suo «leale sostegno a
Israele» e, nel 1994, del premio Torch of Liberty dalla filoisraeliana ADL.
(52)
Resta il fatto che il precoce sfogo, nel 1979, del
reverendo Jesse Jackson che disse di «non [poterne] più di sentir parlare
dell'Olocausto» non fu perdonato né dimenticato altrettanto rapidamente. In
effetti, gli attacchi a Jackson da parte delle élite ebraiche americane non
cessarono mai, anche se non a causa delle sue «dichiarazioni antisemite»,
quanto piuttosto per l'avere sposato «le posizioni palestinesi» (Seymour Martin
Lipset ed Earl Raab). (53) Nel caso di Jackson, giocava pure un altro fattore:
il reverendo rappresentava un elettorato con cui la comunità ebraica americana
era entrata in urto sin da[45]gli ultimi anni Sessanta. Anche in questi
conflitti, l'Olocausto si dimostrò un'arma ideologica potente.
Le élite ebraiche furono indotte a potenziare dopo
la guerra dei Sei Giorni non dalla tanto sbandierata debolezza d'Israele e dal
suo isolamento, che facevano temere un «secondo Olocausto», quanto piuttosto
dalla forza dimostrata dallo Stato ebraico e dalla sua alleanza strategica con
gli Stati Uniti. È lo stesso Novick a fornire, anche se involontariamente, la
prova migliore a sostegno di questa conclusione. Per dimostrare che furono
considerazioni di potere, e non la Soluzione Finale dei nazisti, a determinare
la politica americana nei confronti d'Israele, scrive: «Fu quando l'Olocausto
era più vivido nella mente dei leader americani, nel primo venticinquennio dopo
la fine della guerra, che gli Stati Uniti sostennero meno Israele [ ... ] Non fu quando Israele era percepito come
debole e vulnerabile, ma dopo che ebbe dimostrato la propria forza, nella
guerra dei Sei Giorni, che l'aiuto americano si trasformò da un rivolo a un
flusso continuo» (il corsivo è nell'originale). (54) Questa osservazione vale
altrettanto per le élite ebraiche americane.
Esistono anche ragioni interne per la nascita
dell'industria dell'Olocausto. Gli studiosi sottolineano la recente apparizione
della «politica dell'identità» da un lato e della «cultura della
vittimizzazione» dall'altro. In realtà, [46] ogni identità si fonda su una
specifica storia di oppressione e, di conseguenza, gli ebrei cercarono la loro
nell'Olocausto.
Eppure, tra i gruppi che protestano la loro
vittimizzazione, ivi compresi i neri, i latini, i nativi americani, le donne, i
gay e le lesbiche, solamente gli ebrei, nella società americana, non sono
svantaggiati. In realtà, la politica dell'identità e l'Olocausto hanno fatto
presa tra gli ebrei americani non in virtù del loro status di vittime ma
proprio perché essi non sono vittime.
Nel momento in cui, dopo la Seconda guerra mondiale.
le barriere antisemitiche si sgretolarono rapidamente, gli ebrei conobbero
un'ascesa sociale negli Stati Uniti. Secondo Lipset e Raab, il reddito pro capite degli ebrei è circa il doppio
di quello dei non ebrei; sedici dei quaranta americani più ricchi sono ebrei;
il quaranta per cento dei vincitori americani del premio Nobel in ambito
scientifico ed economico è ebreo, così come il venti per cento dei professori
nelle università più importanti e il quaranta per cento dei soci dei maggiori
studi legali di New York e Washington. L'elenco prosegue. (55) Lungi dal
costituire un ostacolo al successo, l'identità ebraica ne è divenuta l'emblema.
Proprio come molti ebrei presero le distanze da Israele quando rappresentava
uno svantaggio e si riscoprirono sionisti quando divenne una risorsa, essi si
tennero alla larga dalla loro identità ebraica finché questa costi[47]tuì uno
svantaggio e si riscoprirono ebrei quando esserlo divenne un vantaggio.
In verità, il successo sociale dell'ebraismo americano
convalidò un convincimento di fondo (forse l'unico) degli ebrei circa la
propria identità appena ritrovata. Chi avrebbe più potuto mettere in
discussione il fatto che gli ebrei erano il «popolo eletto»? Charles
Silberman, anche lui un ebreo «ritrovato», in A Certain People. American jews and Their
Lives Today [Un certo tipo di persone: gli ebrei americani e la loro vita
oggi], si entusiasma: «Se avessero evitato completamente qualunque idea di
superiorità, gli ebrei non sarebbero stati umani» e aggiunge che «per gli ebrei
americani è terribilmente difficile cancellare completamente il senso di
superiorità, per quanto si sforzino di farlo». Secondo il romanziere Philip
Roth, quello che un bambino ebreo americano si trova come eredità è «nessuna
legge, nessun insegnamento, nessuna lingua e, in definitiva, nessun Dio [...]
ma un atteggiamento mentale che può essere tradotto in quattro parole:
"Gli ebrei sono meglio"». (56) Come vedremo, l'Olocausto costituì
l'immagine ribaltata del tanto decantato successo degli ebrei nel mondo: servì
a ratificare la loro identità di popolo eletto.
Negli anni Settanta l'antisemitismo non era più un
fenomeno di rilievo nella vita americana. Ciò nondimeno, i leader ebrei
cominciarono a suonare il campa[48]nello d'allarme: l'ebraismo americano era
minacciato da un'ondata violenta di «nuovo antisemitismo». (57) Tra le prove
principali addotte da un importante studio dell'ADL, («per coloro che sono
morti perché erano ebrei») comparivano il musical di Broadway Jesus Christ Superstar e un tabloid
alternativo che «ritraeva Kissinger come un servile leccapiedi, vigliacco,
borioso, adulatore, tiranno, arrampicatore sociale, manipolatore del male, snob
insicuro, interessato a null'altro che al potere e privo di scrupoli»: di
fatto, si trattava ancora di un giudizio alquanto moderato. (58)
Per le organizzazioni ebraiche americane, questo
isterismo indotto circa un nuovo antisemitismo serviva a diversi scopi.
Accreditò ancora l'idea che Israele fosse il luogo dell'estremo rifugio, se e
quando agli ebrei americani ne fosse servito uno; per di più, gli appelli per
la raccolta di fondi da parte delle organizzazioni ebraiche in nome della lotta
all'antisemitismo trovarono portafogli più disponibili. «L'antisemitismo si
trova nell'infelice posizione» osservò una volta Sartre «di avere bisogno per sopravvivere
dello stesso nemico di cui vuole la distruzione.» (59) Per queste
organizzazioni ebraiche, l'affermazione contraria è ugualmente vera. Quando
negli ultimi anni l'antisemitismo ha cominciato a declinare, si è scatenata una
spietata rivalità tra le maggiori organizzazioni «di difesa» degli ebrei, in
particolare tra l'ADL e il Centro Simon Wiesenthal. (60) Nella que[49]stione
della raccolta di fondi, tra l'altro, le presunte minacce nei confronti
d'Israele servirono a uno scopo analogo. Di ritorno da un viaggio negli Stati
Uniti, lo stimato giornalista israeliano Danny Rubinstein ebbe a osservare:
«Secondo la maggior parte delle persone che fanno parte dell'establishment
ebraico, la cosa importante è dare continuamente enfasi ai pericoli che incombono
su Israele [ ... ] All'establishment ebraico americano Israele serve solamente
come vittima dei crudele attacco degli arabi. Per un Israele in queste
condizioni si possono ottenere sostegno, donazioni, denaro [ ... ] Tutti
conoscono le cifre ufficiali dei contributi raccolti dallo United Jewish Appeal
in America, in cui viene usato il nome d'Israele: qualcosa come la metà dei
soldi non va a Israele ma alle istituzioni ebraiche in America. Esiste un
cinismo maggiore?». Come vedremo, lo sfruttamento da parte dell'industria
dell'Olocausto delle «vittirne bisognose dell'Olocausto» è l'ultima e
probabilmente la più turpe manifestazione di questo cinismo. (61)
Comunque, il motivo principale e più segreto per suonare il
campanello d'allarme dell'antisemitismo sta altrove. Più crebbe il loro
successo sociale, più gli ebrei americani si spostarono politicamente a destra.
Benché restassero su posizioni progressiste su questioni culturali come la
moralità sessuale e l'aborto, divennero sempre più conservatori in materia di
politica e di econo[50]mia. (62) Questa svolta a destra fu accompagnata da
un'involuzione: gli ebrei, dimentichi degli antichi alleati che contavano tra i
non abbienti, destinarono sempre più le loro risorse esclusivamente a questioni
ebraiche. Questa virata dell'ebraismo americano (63) si manifestò con chiarezza
nelle tensioni crescenti con i neri. Tradizionalmente sulle stesse posizioni
della comunità nera contro le discriminazioni di casta negli Stati Uniti, molti
ebrei ruppero l'alleanza con il movimento per i diritti civili alla fine degli
anni Sessanta, quando, come scrive Jonathan Kaufman, «i suoi obiettivi
passarono dalla richiesta di uguaglianza politica e legale a quella di
uguaglianza economica». «Quando il movimento per i diritti civili si spostò a
Nord, avvicinandosi a questi ebrei progressisti»
sottolinea in modo analogo Cheryl Greenberg «la questione dell'integrazione
prese una piega diversa. Con una preoccupazione le cui motivazioni si
annidavano più in questioni di classe che razziali, gli ebrei fuggirono nelle
zone residenziali periferiche quasi alla stessa velocità dei bianchi cristiani,
per evitare quello che percepivano come un deterioramento delle loro scuole e
dei loro quartieri.» Il memorabile acme fu il lungo sciopero degli insegnanti a
New York nel 1968, che contrappose un sindacato di professionisti in gran parte
ebrei agli attivisti della comunità nera in lotta per il controllo delle scuole
in stato di abbandono. I resoconti dello sciopero riferiscono spesso di
manifestazioni [51] collaterali di antisemitismo, ma l'esplosione di un
razzismo di marca ebraica (che prima dello sciopero rimaneva nascosto appena
sotto la superficie) non viene ricordata altrettanto spesso. Più di recente,
esperti di diritto pubblico ebrei e organizzazioni ebraiche sono stati in prima
linea nello sforzo per smantellare i programmi dell'affirmative action (integrazione delle minoranze). In testichiave
della Corte Suprema (De Funis, del
1974, e Bakke, del 1978), l'AJC,
l'ADL, e il congresso dell'AJ, hanno tutti prodotto pareri scritti nei quali si
opponevano ai programmi dell'affirmative
action (64).
Attivatesi con piglio aggressivo per difendere i
loro interessi di corporazione e di classe, le élite ebraiche tacciarono di
antisemitismo tutti coloro che si opponevano al loro nuovo corso conservatore.
Perciò Nathan Perlmutter, capo dell'ADL, sostenne che «il vero antisemitismo»
in America stava nelle iniziative politiche «che danneggiano gli interessi
ebraici», come i programmi antidiscriminazione, i tagli alla spesa per la
difesa e il neoisolazionismo, come pure l'opposizione al nucleare e persino la
riforma dei collegi elettorali (65).
In questa offensiva ideologica, l'Olocausto ebbe un
ruolo cruciale. Molto semplicemente, rievocare le persecuzioni del passato
serviva a respingere le critiche sul presente. Gli ebrei giunsero addirittura a
esprimere simpatia per il sistema delle ammissioni riservate e limitate delle
minoranze nell'università e nella pubblica [52] amministrazione: ne erano stati
danneggiati in passato, ma ora potevano servirsene per opporsi all'integrazione
di altre minoranze attraverso programmi di affirmative
action. Oltre a ciò, comunque, lo schema mentale dell'Olocausto
rappresentava l'antisemitismo come il frutto di un odio puramente irrazionale
dei «gentili» verso gli ebrei, escludendo la possibilità che quella
disposizione nei loro confronti potesse fondarsi su un reale conflitto di
interessi (argomento che riprenderò nelle pagine successive). Di conseguenza,
evocare l'Olocausto era uno stratagemma per delegittimare ogni genere di
critica nei confronti degli ebrei: critiche di quel genere potevano nascere
solamente da un odio patologico.
Proprio come l'ebraismo americano si mise a
ricordare l'Olocausto quando la forza d'Israele raggiunse il suo culmine, così
Israele fece lo stesso quando si affermò il potere degli ebrei americani. Il
pretesto fu comunque che, in Israele come negli Stati Uniti, l'ebraismo
rischiava un imminente «secondo Olocausto». Le élite ebraiche americane poterono
così assumere pose eroiche nello stesso momento in cui indulgevano in
comportamenti vigliaccamente prepotenti. Per esempio, Norman Podhoretz
sottolinea che, dopo la guerra dei Sei Giorni, gli ebrei erano ormai decisi a
«resistere a chiunque in ogni modo, a qualunque livello e per qualunque ragione
cerchi di recarci un qualsiasi danno [53]. D'ora in poi resisteremo». (66) E
cosi, come gli israeliani, armati fino ai denti degli Stati Uniti, misero
coraggiosamente al loro posto i ribelli palestinesi, altrettanto
coraggiosamente gli ebrei americani misero al loro posto i ribelli neri.
Tiranneggiare chi è meno in grado di difendersi:
questa è la realtà del tanto sbandierato coraggio delle organizzazioni ebraiche
americane.
capitolo 1
Note
1.Cit. in Michael Berenbaum, After Tragedy and Triumph, Cambridge 1990, 45.
2. Nel
testo, con l'espressione «Olocausto nazista» si fa riferimento all'evento
storico, con il termine «Olocausto» alla sua rappresentazione ideologica.
3. Per
l'impressionante elenco di giustificazioni del comportamento di Israele firmate
da Wiesel, si veda Norman Finkelstein e Ruth Bettina Birn, A Nation on Trial. The Goldhagen Thesis and Historical Truth, New
York 1998, 91 n83, 96 n90. Altrove il suo comportamento non è migliore. In un
nuovo libro di memorie, And the Sea Is
Never Full, New York 1999, Wiesel offre questa sbalorditiva spiegazione
circa il suo silenzio sul dramma palestinese: «Malgrado l'enorme pressione, ho
rifiutato di prendere pubblicamente posizione sul conflitto arabo-israeliano»
(125). Nella sua dettagliatissima indagine sulla letteratura sull'Olocausto, il
critico letterario Irving Howe (Writing
and Holocaust, in «New Republic», 27 ottobre 1986) liquida il vasto corpus
delle opere di
Wiesel in un solo paragrafo con il vago elogio che
«il primo libro di Elie Wiesel, La Nuit,
[è] scritto con semplicità e senza indulgere nella retorica». «Dopo La Nuit non c'è più nulla che valga la
pena d'essere letto» concorda il critico letterario Alfred Kazin. «Ora Elie è
esclusivamente un attore: rivolgendosi a me, si è definito un
"conferenziere [18] sull'angoscia"» (A Lifetime Burning in Every Moment, New York, 1996, 179).
4. New
York, 1999. Norman FinkeIstein, Uses of
the Holocaust, in «London Review of Books», 6 gennaio 2000.
5. Novick, The Holocaust, 3-6.s
6. Raul
Hilberg, The Destruction of the European
Jews, New York, 1961; Viktor Frankl,
Man's Search for Meaning, New York 1959; Ella Lingens-Reiner, Prisoners of Fear, London, 1948.
7. Gore
Vidal, The Empire Lovers Strike Back,
in «Nation», 22 marzo 1986.
8. Rochelle
G. Saidel, Never Too Late to Remember,
New York 1996, 32.
9. Hannah
Arendt, Eichmann in Jerusalem: A Report
on the Banality of Evil, edizione rivista e ampliata, New York 1965, 282.
La situazione in Germania non era molto diversa. Per esempio, la giustamente
ammirata biografia di Hitler, di Joachim Fest, pubblicata in Germania nel 1973,
dedica solamente quattro delle 750 pagine del volume allo sterminio degli ebrei
e un unico paragrafo ad Auschwitz e agli altri campi di sterminio. Joachim C.
Fest, Hitler, New York 1975, 679-82.
10. Raul
Hilberg, The Politics of Memory,
Chicago 1996, 66, 105-37. Come per gli studi scientifici, la qualità dei pochi
film sull'Olocausto era comunque decisamente notevole. Sorprendentemente, Vincitori e vinti (1961) di Stanley
Kramer fa esplicito riferimento alla decisione (1927) dei giudice della Corte
Suprema Oliver Wendell Holmes di consentire la sterilizzazione dei «mentalmente
inabili» come precorritrice dei programmi eugenetici nazisti; cita gli elogi
rivolti da Winston Churchill a Hitler fino al 1938; il riarmo di Hitler reso
possibile da industriali americani profittatori e l'opportunistico
proscioglimento, dopo la guerra, degli industriali tedeschi da parte del
tribunale militare americano.
11. Nathan
Glazer, American Judaism, Chicago
1957, 114; Stephen J. Whitfield, The
Holocaust and the American jewish Intellectuals in «Judaism», autunno 1979.
12. Per
una lucida descrizione di questi due tipi antitetici di sopravvissuto, si veda
Primo Levi, La tregua, Einaudi,
Torino 1963.
13. Nel
testo, il termine «élite ebraiche» designa personalità di spicco nel mondo
delle organizzazioni e nella vita culturale della comunità ebraica
tradizionale.
14. Shlomo
Shafir, Ambiguous Relations. The American
jewish Community and Germany Since 1945, Detroit 1999, 88, 98, 100-1, 111,
113, 114, 177, 192, 215, 231, 251.
15. Ivi,
98, 106n 123-37, 205, 215-16, 249. Robert Warshaw, The «Idealism» of Julius and Ethel Rosenberg, in «Commentary»,
novembre 1953. Fu una pura coincidenza che allo stesso tempo le organizzazioni
ebraiche tradizionali misero in croce Hannah Arendt, colpevole di avere
sottolineato il collaborazionismo delle élite ebraiche durante l'era nazista?
Nel ricordare il ruolo odioso delle forze di polizia ebraica, Yitzhak
Zuckerman, un leader della rivolta del ghetto di Varsavia, osservò: «Non
c'erano poliziotti «onesti», perché gli uomini onesti si toglievano l'uniforme
e tornavano a essere semplici ebrei» (A
Surplus of Memory, Oxford 1993, 244).
16. Novick, The Holocaust, 98-100. Oltre alla
Guerra Fredda, altri fattori ebbero un ruolo sussidiario nella decisione della
comunità ebraica americana di mettere la sordina, nel dopoguerra, all'Olocausto
nazista: per esempio, la paura dell'antisemitismo e la tendenza, nell'America degli
anni Cinquanta, all'ottimismo e all'assimilazione. Novick prende in esame
questi aspetti nei capitoli 4-7 di The
Holocaust.
17. A
quanto sembra, il solo a negare questo legame è Elie Wiesel, il quale sostiene
che l'Olocausto affiorò nella vita americana soprattutto per opera sua (Saidel, Never Too Late, 33-34).
18. Menahem
Kaufman, An Ambiguous Partnership,
Jerusalem 1991, 218, 276-77.
19. Arthur
Hertzberg, Jewish Polemics, New York
1992, 33; per quanto ingannevolmente apologetico, cfr. Isaac Alteras, Eisenhower, American Jewry and Israel
in «American Jewish Archives», novembre 1985, e Michael Reiner, The Reaction of US-Jewish Organizations to
the Sinai Campaign and Its Aftermath, in «Forum», inverno 1980-81.
20. Nathan
Glazer, American judaism, Chicago
1957, 114. Glazer prosegue: «Israele non significa quasi nulla per l'ebraismo
americano [...] L'idea che Israele [...] possa seriamente influenzare
l'ebraismo americano [...] è percepita come un'illusione» (115).
21. Shafir, Ambiguous Relations, 222.
22. Si
veda, per esempio, Alexander Bloom,
Prodigal Sons, New York 1986.
23. Lucy
Dawidowicz e Milton Himmelfarb (a cura di),
Conference on Jewish Identity Here and Now, American Jewish Committee 1967.
24. Dopo
essere emigrata dalla Germania nel 1933, Hannah Arendt divenne un'attivista del
movimento sionista francese; durante la Seconda guerra mondiale e fino alla
fondazione d'Israele, scrisse diffusamente sul sionismo. Noam Chomsky, figlio
di un ebraista americano di fama, fu allevato in una famiglia sionista e, poco
dopo l'indipendenza d'Israele, trascorse dei tempo in un kibbutz. Entrambe le
campagne denigratorie, contro Arendt all'inizio degli anni Sessanta e contro
Chomsky negli anni Settanta, furono condotte dall'ADL. Si vedano Elisabeth
Young-Bruehl, Hannah Arendt,
New Haven 1982, 105-8, 138-39, 143-44, 182-84,
223-33, 348; Robert E Barsky, Noam
Chomsky, Cambridge 1997, 9-93; David Barsamian (a cura di), Chronicles of Dissent, Monroe (ME)
1992, 38.
25. Per
una precoce anticipazione di questo mio ragionamento, si veda Hannah Arendt, Zionism Reconsidered (1944-45), in Ron
Feldman (a cura di), The Jew as Pariah,
New York 1978,159.
26. Making It, NewYork, 1967,336.
27. Breaking Ranks, New York, 1979,335.
28. Robert
I. Friedman, The Anti-Defamation League
Is Spying on You, in «Village
Voice», 11 maggio 1993; Abdeen Jara,
The Anti-Defamation League: Civil Rights and Wrongs, in «Covert Action»,
estate 1993; Matt Isaacs, Spy vs Spite,
in «SF Weekly», 2-8 febbraio 2000.
29. Elie
Wiesel, Against Silence, raccolta di
scritti scelti e curati da Irving Abrahamson, New York 1984, 1, 283.
30. Novick, The Holocaust, 147; Lucy S. Dawidowicz, The Jewish Presence, New York 1977, 26.
31. La
«dottrina del destino manifesto» nacque nei primi decenni dell'Ottocento negli
Stati Uniti per promuovere l'espansione territoriale.
John O'Sullivan parlò infatti del «nostro destino manifesto: diffonderci nel
continente assegnato dalla Provvidenza al libero sviluppo dei nostri milioni di
abitanti, che si moltiplicano di anno in anno». (NAT)
32. Eruption in the Middle East, in «Dissent»,
inverno 1957.
33. Israel: Thinking the Unthinkable, in
«New York», 24 dicembre 1973.
34. Norman
G. FinkeIstein, Image and Reality of the
Israel-Palestine Conflict, New York 1995, capitoli 5-6.
35. Noam
Chomsky, The Fateful Triangle, Boston
1983, 4.
36. La
carriera di Elie Wiesel è illuminante per cogliere il legame tra l'Olocausto e
la guerra dei Sei Giorni: benché avesse già pubblicato le sue memorie su
Auschwitz, salì agli onori della cronaca solamente dopo avere scritto due
volumi che celebravano la vittoria israeliana (Wiesel, And the Sea, 16).
37. Kaufman, Ambiguous Partnership, 287,306-7;
Steven L. Spiegel, The OtherArabIsraeIi
Conflict, Chicago 1985, 17, 32.
38. Benny
Morris, 1948 And After, Oxford 1990,
14-15; Uri Bialet, Between East and West,
Cambridge 1990, 180-8 l.
39. Novick, The Holocaust, 148.
40. Si
veda, a titolo d'esempio, Amnon Kapeliouk,
Israel: la fin des Mythes, Parigi 1975.
41. Novick, The Holocaust, 152.
42. Letter from Israel in «Commentary»,
febbraio 1975. Per tutta la durata della crisi di Suez, «Commentary» non smise
di ripetere che era in gioco «l'esistenza stessa» d'Israele.
43. Abba
Eban, Personal Witness, New York
1992, 272.
44. Peter
Grose, Israel in the Mind of America,
New York 1983, 304.
45. A.E.K.
Organski, The $36 Billion Bargain,
New York 1990, 48,163.
46. Finkelstein, Image and Reality, capitolo 6.
47. Novick, The Holocaust, 149-50. L'autore cita in
quest'occasione il noto studioso ebreo Jacob Neusner.
48. Ivi,
153,155.
49. Ivi,
69-77.
50. Tom
Segev, The Seventh Million, New York
1993, IV parte.
51. Ugualmente
progettato a tavolino fu l'interesse nei confronti dei sopravvissuti
all'Olocausto nazista: prima del 1967 furono zittiti in quanto la loro
testimonianza era ritenuta sconveniente; dopo la guerra, divenuti utili pedine,
vennero santificati.
52. «Response»,
dicembre 1988. I principali mercanti dell'Olocausto e sostenitori d'Israele
come il direttore nazionale dell'ADL, Abraham Foxman, l'ex presidente dell'AJC
Morris Abram e il presidente della Conferenza dei presidenti delle maggiori
organizzazioni ebraiche americane Kenneth Bialkin, per non parlare di Henry
Kissinger, tutti quanti insorsero in difesa di Reagan. In occasione della
visita a Bitburg, mentre l'AJC quella stessa settimana riceveva come ospite
d'onore al proprio meeting annuale il ministro degli Esteri tedesco, un
fedelissimo dei cancelliere Helmut Kohl. Con spirito analogo, Michael Berenbaum
del Washington Holocaust Memorial Museum giustificò in seguito la visita a
Bitburg e le dichiarazioni di Reagan attribuendole all'«ottimismo naive degli
americani». Shafir, Ambiguous Relations,
302-4; Berenbaum, After Tragedy, 14.
53. Seymour
Martin Lipset ed Earl Raab, Jews and the
New American Scene, Cambridge 1995,159.
54. Novick, The Holocaust, 166.
55. Lipset
e Raab, Jews, 26-27.
56. Charles
Silberman, A Certain People. American
jews and Their Lives Today, New York 1985. 78, 80, 81 (Roth).
57. Novick, The Holocaust, 170-72.
58. Arnold
Forster e Benjamin R. Epstein, The New
Anti-Semitism, New York 1974, 107.
59. Jean-Paul
Sartre, Anti-Semite and Jew, New York
1965, 28.
60. Saidel, Never Too Late, 222. Seth Mnookin, Will NYPD Look to Los Angeles For Latest
«Sensivity» Training?, in «Forward», 7 gennaio 2000. L'articolo riporta che
l'ADI, e il Centro Simon Viesenthal sono in competizione per l'esclusiva sui
programmi che insegnano la «tolleranza».
61. Noam
Chomsky, Pirates and Emperors, New
York 1986, 29-30 (Rubinstein).
62. Per
un'indagine sui recenti dati elettorali che confermano questa tendenza, si veda
Murray Friedman,
Are American Jews Moving to the Right?, in «Commentary», aprile 2000. Per
esempio, nella sfida elettorale del 1997 per eleggere il sindaco di New York,
che vide contrapposti Ruth Messinger, democratica tradizionale, e Rudolph
Giuliani, un repubblicano sostenitore della linea «legge e ordine», un buon
settantacinque per cento del voto ebraico andò a Giuliani. È significativo che,
per votare a favore di Giuliani, gli ebrei dovettero abbandonare il loro
partito tradizionale così come la loro fedeltà etnica (Messinger è ebrea).
63. Questo
cambiamento sembra in parte dovuto all'ascesa al potere di ebrei arrivisti e
sciovinisti dello shtetl provenienti
dall'Europa orientale, come il sindaco di New York Edward Koch e il direttore
del «New York Times» A.M. Rosenthal, che presero il posto della leadership
centro-europea e cosmopolita. A questo riguardo, giova notare che gli storici
ebrei che dissentono dalle posizioni dogmatiche sull'Olocausto (per esempio,
Hannah Arendt, Henry Friedlander, Raul Hilberg e Arno Mayer) provengono
dall'Europa centrale.
64. Si
veda per esempio Jack Salzman e Cornel West (a cura di), Struggles in the
Promised Land,
New York 1997, specialmente i capitoli 6, 8, 9, 14 e 15 (Kaufman 111, Greenberg
166). In realtà, una forte voce minoritaria all'interno del mondo ebraico
espresse il proprio dissenso da questa svolta a destra.
65. Nathan
PerImutter e Ruth Ann PerImutter, The
Real AntiSemitism in America, New York 1982.
66. Novick, The Holocaust, 173 (Podhoretz).
CAPITOLO 2
TRUFFATORI, VENDITORI E STORIA
«L'informazione sull'Olocausto» osserva Boas Evron,
rispettato scrittore israeliano, è in realtà «un'operazione d'indottrinamento e
di propaganda, un ribollio di slogan e una falsa visione del mondo il cui vero
intendimento non è affatto la comprensione del passato, ma la manipolazione del
presente.» Di per sé, l'Olocausto nazista non è al servizio di un particolare
ordine del giorno politico: può altrettanto facilmente motivare il dissenso o
il sostegno alla politica israeliana. Filtrata dalla lente dell'ideologia,
però, «la memoria dello sterminio nazista» fini col diventare, secondo Evron,
«un potente strumento nelle mani della dirigenza israeliana e degli ebrei della
diaspora». (1) L'Olocausto nazista divenne «l'Olocausto» per antonomasia.
Due assiomi centrali stanno a sostegno
dell'impalcatura ideologica dell'Olocausto: il primo è che esso costituisce un
evento storico unico e senza paragoni; il se[66]condo è che segna l'apice
dell'eterno odio irrazionale dei gentili nei confronti degli ebrei. Nessuna delle
due affermazioni appare in interventi pubblici prima della guerra del giugno
1967, né, per quanto esse siano diventate la pietra angolare della letteratura
sull'Olocausto, figurano negli studi critici sull'Olocausto nazista (2).
D'altro canto, i due assiomi attingono a componenti importanti dell'ebraismo e
del sionismo.
Subito dopo la Seconda guerra mondiale, l'Olocausto
nazista non era considerato un evento unicamente ebraico, tanto meno un evento
storico unico. L'ebraismo americano, in particolare, si diede cura d'inserirlo
in un contesto di tipo universalista. Ma dopo la guerra dei Sei Giorni la
Soluzione Finale fu radicalmente ridisegnata. «La prima e più importante
convinzione che emerse dal conflitto del 1967 e che divenne l'emblema
dell'ebraismo americano» fu, come ricorda Jacob Neusner, che «l'Olocausto [...]
era qualcosa di unico, senza paragoni nella storia umana» (3). In un saggio
illuminante, lo storico David Stannard mette in ridicolo la «piccola industria
degli agiografi dell'Olocausto che sostengono l'unicità dell'esperienza ebraica
con tutta l'energia e l'ingenuità di zeloti della teologia». (4) Il dogma della
sua unicità, dopo tutto, non ha senso.
Al livello più elementare, qualunque evento storico
è unico, se non altro in virtù del tempo e del luogo in cui accade, e presenta
tanto caratteristiche sue proprie [67] quanto tratti comuni ad altri eventi
storici. L'anomalia dell'Olocausto consiste nel fatto che la sua unicità è
ritenuta assolutamente decisiva. Quale altro evento storico, si potrebbe
chiedere, è definito in larga parte dalla sua categorica unicità? Come è
evidente, i tratti distintivi dell'Olocausto vengono isolati allo scopo di
porre l'evento in una categoria completamente separata. Non si capisce perché,
in ogni modo, i molti tratti comuni debbano essere considerati insignificanti a
confronto di questa specificità.
Tutti coloro che hanno scritto dell'Olocausto
concordano sul fatto che sia unico, ma ben pochi concordano sul perché. Ogni
volta che un argomento a sostegno della sua unicità viene confutato, ne viene
addotto uno nuovo in sostituzione. Il risultato, secondo JeanMichel Chaumont, è
una massa di argomenti contraddittori che si elidono a vicenda: «La conoscenza
in proposito non procede per accumulazione. Anzi: per superare quello
precedente, ogni nuovo argomento parte da zero». (5) Detto in altri termini,
l'unicità dell'Olocausto è un assioma: provarla è il compito assegnato,
confutarla equivale a negare l'Olocausto stesso. Forse il problema sta nella
premessa e non nella dimostrazione. Anche se l'Olocausto fosse unico, che
differenza farebbe? Come potrebbe cambiare la nostra comprensione se non fosse
il primo, ma il quarto o il quinto di una serie di catastrofi comparabili?
[68] L'ultimo a fare il proprio
ingresso nella lotteria sull'unicità dell'Olocausto è stato Steven Katz, con la
sua opera The Holocaust in Historical
Context [L'Olocausto in un contesto storico], progettata in tre volumi. Nel
primo di essi, citando circa cinquemila titoli, Katz prende in esame l'intero
orizzonte della storia umana per dimostrare che
«l'Olocausto è fenomenologicamente unico in virtù
del fàtto che mai in precedenza uno Stato si era proposto, come una questione
di principio e di programma politico, l'annientamento fisico di ogni uomo,
donna e bambino appartenente a un determinato popolo». Per chiarire la propria
tesi, Katz spiega: « [La qualità] C è attribuita esclusivamente a f . Può
condividere A, B, D... X con ® ma non C. E ancora, può condividere A, B, D... X
con tutti i ® ma non C. Ogni dato essenziale s'incentra, per così dire, sul
fatto che f è l'unico a essere una qualità di C [...] Mancando di C, p non è f
[...] Per definizione, non sono ammesse eccezioni a questa regola. Condividendo
A, B, D... X con f , ® può essere come f sotto vari aspetti [...] ma per quanto
concerne la nostra definizione di unicità qualunque ® mancante di C non è f
[...] Naturalmente, preso nella sua totalità f è più di C, ma non c'è mai f
senza C». Traduzione: un evento storico che contenga un tratto distintivo è un
evento storico distinto. Per evitare ogni confusione, Katz spiega ulteriormente
che utilizza il termine fenomenologicamente «in un senso nonhusserliano,
non-schutzea[69]no, non-scheleriano, non-heideggeriano, nonmerleaupontiano».
Traduzione: il tentativo di Katz è un nonsenso fenomenico. (6) Anche se la
dimostrazione sostenesse la tesi portante di Katz, e non lo fà, proverebbe
soltanto che l'Olocausto presenta un tratto distintivo. Sarebbe strano se non
fosse così. Chaumont ne deduce che lo studio di Katz è in realtà «ideologia»
travestita da «scienza», questione che verrà approfondita tra breve. (7)
Solo un capello separa
l'affermazione di unicità dell'Olocausto da quella che questo evento non può
essere compreso razionalmente. Se l'Olocausto non ha precedenti nella storia,
deve starne al di sopra e quindi non può essere oggetto di una spiegazione
storica.
E infatti l'Olocausto è unico in quanto
inesplicabile e inesplicabile in quanto unico.
Etichettata da Novick come
«sacralizzazione dell'Olocausto», questa mistificazione ha il suo campione più
esperto in Elie Wiesel, per il quale, osserva giustamente Novick, l'Olocausto è
una vera e propria religione «misterica». Perciò Wiesel salmodia che l'Olocausto
«conduce nelle tenebre», «nega tutte le risposte», «sta al di fuori, anzi al di
là, della storia», «resiste tanto alla comprensione quanto alla descrizione»,
«non può essere né spiegato né visualizzato», è incomprensibile e
intramandabile», segna il punto di «distruzione della storia» e di una
«mutazione su scala cosmica». Solamente il sopravvissuto-sacerdote (vale a dire
solamente Wie[70]sel) è qualificato per divinarne il mistero. Eppure il mistero
dell'Olocausto - Wiesel lo dichiara apertamente - è
«incomunicabile»: «Non possiamo nemmeno parlarne». Così, per
il suo normale onorario di venticinquemila dollari (più limousine con autista),
Wiesel ci tiene conferenze sul fatto che il «segreto» della «verità» di
Auschwitz «giace nel silenzio». (8)
Secondo questa prospettiva, comprendere
razionalmente l'Olocausto equivale a negarlo, perché la ragione nega l'unicità
e il mistero dell'Olocausto; metterlo poi a confronto con le sofferenze di
altri costituisce, secondo Wiesel, «un completo tradimento della storia
ebraica». (9) Qualche anno fa, nella parodia di un tabloïd newyorkese apparve
il titolo «Michael Jackson e altri sessanta milioni di persone muoiono in un
olocausto nucleare», che suscitò un'irata protesta di Wiesel sulla pagina delle
lettere al direttore: «Come osano riferirsi a ciò che è accaduto ieri come a un
Olocausto? C'è stato un solo Olocausto [...]». Nel suo nuovo libro di memorie,
a riprova del fatto che la vita può anche imitare la parodia, Wiesel bacchetta
Shimon Peres per aver parlato «senza esitazione dei "due olocausti del
ventesimo secolo: Auschwitz e Hiroshima. Non avrebbe dovuto». (10) Uno dei
pistolotti finali favoriti di Wiesel è che «l'universalità dell'Olocausto sta
nella sua unicità». (11) Ma se è incomparabilmente e incomprensibilmente unico,
come è possibile che l'Olocausto abbia una dimensione universale?
[71] Il dibattito sull'unicità dell'Olocausto è
sterile e in realtà l'insistenza sulla sua unicità ha finito col costituire una
forma di «terrorismo intellettuale» (Chaumont). Coloro che mettono in pratica
le normali procedure comparative della ricerca scientifica devono prima
chiedere mille e una sospensiva per cautelarsi dall'accusa di «banalizzare
l'Olocausto». (12)
Un corollario del dogma sull'unicità dell'Olocausto è
che esso è il male nella sua unicità: per quanto terribile, la sofferenza di un
altro popolo non si può neppure paragonare a esso. I sostenitori dell'unicità
dell'Olocausto si rifiutano ovviamente di ammettere questa implicita
conseguenza, ma si tratta di una posizione in malafede. (13)
Queste dichiarazioni di unicità dell'Olocausto sono
sterili dal punto di vista intellettuale e indegne da quello morale, eppure
persistono. Il punto è capire perché. In primo luogo, una sofferenza unica
conferisce diritti unici. Il male unico dell'Olocausto, secondo Jacob Neusner,
non soltanto pone gli ebrei su un piano diverso rispetto agli altri, ma concede
loro anche una «rivendicazione nei confronti di questi altri». Per Edward
Alexander, l'unicità dell'Olocausto è un «capitale morale» e gli ebrei devono
«rivendicare la sovranità» su questo «patrimonio prezioso». (14)
In effetti, l'unicità dell'Olocausto (questa
«rivendicazione» nei confronti dì altri, questo «capitale morale») [72] serve a
Israele come alibi. «La singolarità della sofferenza degli ebrei» sostiene lo
storico Peter Baldwin «aumenta le rivendicazioni morali ed emotive che Israele
può avanzare [...] nei confronti di altre nazioni.» (15) Di conseguenza,
secondo Nathan Glazer, l'Olocausto, che ha messo in evidenza il «tratto distintivo peculiare degli ebrei»
ha dato loro «il diritto di considerarsi particolarmente minacciati e
particolarmente meritevoli di ogni sforzo possibile per la loro salvezza» (16)
(il corsivo è nell'originale). Per fare un esempio classico, qualunque articolo
o libro dedicato alla decisione israeliana di mettere a punto armi nucleari
evoca lo spettro dell'Olocausto. (17) Quasi che, se l'Olocausto non fosse
avvenuto, Israele non sarebbe diventata una potenza nucleare.
C'è in gioco un altro fattore. La rivendicazione
dell'unicità dell'Olocausto è una rivendicazione dell'unicità degli ebrei. Non
la sofferenza degli ebrei, ma il fatto che gli
ebrei hanno sofferto è quello che ha reso unico l'Olocausto. Oppure:
l'Olocausto è speciale perché gli ebrei sono speciali. Perciò Ismar Schorsch,
segretario del Jewish Theological Seminary, ridicolizza l'affermazìone di
unicità dell'Olocausto come «una versione secolare e di cattivo gusto
dell'ideologia del popolo eletto». (18) Veemente nell'affermare l'unìcìtà
dell'Olocausto, Elie Wiesel lo è altrettanto nel rivendicare quella degli
ebrei. «Tutto quello che ci riguarda è diverso.» Gli ebrei sono
«ontologicamente» eccezionali. (19) Se[73]gnando l'apice di un odio millenario
dei gentili nei confronti degli ebrei, l'Olocausto ha testimoniato non soltanto
l'unicità della sofferenza degli ebrei, ma l'unicità degli ebrei stessi.
Durante e immediatamente dopo la Seconda guerra
mondiale, dice Novick, «quasi nessuno all'interno dell'amministrazione
[americana] - e quasi nessuno al di fuori di essa, ebreo o non ebreo - avrebbe
capito l'espressione "abbandono degli ebrei"». Dopo il giugno 1967 si
verificò un capovolgimento di prospettiva. «Il silenzio del mondo»,
«l'indifferenza del mondo», «l'abbandono degli ebrei»: queste espressioni
divennero l'ingrediente di base del discorso sull'Olocausto. (20)
Facendo proprio un principio sionista, la
rappresentazione dell'Olocausto giunse a considerare la Soluzione Finale di
Hider come l'apice dell'odio millenario dei gentili nei confronti degli ebrei:
gli ebrei erano morti perché i gentili, che fossero esecutori materiali o
collaboratori passivi, li volevano morti. «Il mondo libero e
"civile"», secondo Wiesel, consegnò gli ebrei «nelle mani dei loro
carnefici. Ci furono gli assassini - i killer - e ci furono quelli che rimasero
in silenzio». (21) È inutile cercare qualche prova storica di tale impulso
omicida dei gentili. Lo sforzo titanico di Daniel Goldhagen di dimostrare una
variante di questa affermazione in Hitler's
Willing Executioners [I volonterosi carnefici di Hitler] sfiora il
ridicolo. (22) Comunque, la sua utilità politi[74]ca è considerevole. Si
potrebbe incidentalmente notare che la teoria dell'«antisemitismo eterno»
finisce col sostenere l'antisemitismo. Come dice Hannah Arendt in The Origins of Totalitarism [Le origini
del totalitarismo]: «Non meraviglia che la storiografia antisemita abbia
professionalmente adottato tale teoria; essa fornisce infatti il miglior alibi
possibile per ogni orrore: se è vero che l'umanità non ha mai smesso di
ammazzare ebrei, vuol dire che l'uccisione di ebrei è una normale occupazione
umana e l'odio per essi una reazione che non occorre neppure giustificare. Quel
che sorprende e confonde è che questa ipotesi sia stata accettata da parte di
moltissimi storici non prevenuti e di quasi tutti gli storici ebrei». (23)
Il dogma dell'odio eterno dei gentili è stato utile
tanto per giustificare la necessità di uno Stato ebraico quanto per rendere
conto dell'ostilità rivolta contro Israele. Lo Stato ebraico è l'unico baluardo
contro la prossima, e inevitabile, esplosione di antisemitismo omicida;
viceversa, l'antisemitismo omicida sta dietro ogni attacco o anche ogni manovra
difensiva contro lo Stato ebraico. Per rendere conto delle critiche nei
confronti d'Israele, la scrittrice Cynthia Ozick ha la risposta pronta: «Il
mondo vuole cancellare gli ebrei [...] il mondo ha sempre voluto cancellare gli
ebrei». (24) Se il mondo vuole vedere morti gli ebrei, c'è davvero da stupirsi
del fatto che essi siano vivi e che, diversamente[75] dalla maggior parte
dell'umanità, non stiano proprio morendo di fame.
Questo dogma ha anche dato carta bianca a Israele:
vista la ferrea determinazione dei gentili nell'uccidere gli ebrei, questi
hanno tutti i diritti di proteggersi come meglio credono. Qualunque espediente
a cui possano ricorrere gli ebrei, perfino l'aggressione e la tortura,
costituisce una legittima difesa. Nel deplorare il dogma dell'odio eterno dei
gentili, Boas Evron osserva che «equivale davvero a un'educazione alla paranoia
[...] Questa mentalità [...] giustifica in anticipo qualsiasi trattamento
inumano dei non ebrei, perché la mitologia prevalente è che «tutti
collaborarono con i nazisti nella distruzione degli ebrei, e dunque agli ebrei
è permessa qualsiasi cosa nei confronti degli altri popoli». (25)
Nella rappresentazione
dell'Olocausto, l'antisemitismo dei gentili non è solo inestirpabile, ma anche
e sempre irrazionale. Superando di molto le posizioni classiche del sionismo,
per non parlare di quelle del mondo accademico, Goldhagen spiega
l'antisemitismo come «svincolato dagli ebrei in quanto tali», «sostanzialmente non una reazione a una valutazione
oggettiva delle azioni degli ebrei» e «indipendente dalla natura e dal
comportamento degli ebrei». Patologia mentale dei gentili, ha il suo «dominio»
nella «mente». Guidati da «argomenti irrazionali», secondo Wiesel, gli
antisemiti «detestano il [76] semplice fatto che gli ebrei esistono». (26) «Non
solo le azioni e le omissioni degli ebrei non hanno nulla a che fare con
l'antisemitismo» osserva criticamente il sociologo John Murray Cuddihy «ma
qualunque tentativo di spiegarlo
facendo riferimento al ruolo
degli ebrei è di per sé un'affermazione di antisemitismo!»
(il corsivo è nell'originale) (27). II punto centrale, naturalmente, non è che
l'antisemitismo sia giustificabile, né che gli ebrei siano responsabili dei
crimini commessi contro di loro, ma che l'antisemitismo si sviluppa in un
contesto storico preciso, con il suo intreccio di interessi connessi. «Una
minoranza dotata, ben organizzata e di successo può ispirare conflitti che
derivano da oggettive tensioni tra gruppi» sottolinea Ismar Schorsch, per
quanto tali conflitti siano «spesso confezionati in stereotipi antisemiti.»
(28)
L'essenza irrazionale dell'antisemitismo dei gentili
viene inferita dall'essenza irrazionale dell'Olocausto. Vale a dire che la
Soluzione Finale di Hitler rivelava un' assenza del tutto unica di razionalità:
era «male per il gusto del male», omicidio di massa «privo di scopo»; la
Soluzione Finale segnò il culmine dell'antisemitismo dei gentili, dunque
l'antisemitismo dei gentili è sostanzialmente irrazionale. Prese separatamente
o insieme, queste affermazioni non reggono neanche a un esame superficiale. Ma
da un punto di vista politico, si tratta di un'argomentazione molto utile. (29)
Nel concedere una totale innocenza agli ebrei, il
[77] dogma dell'Olocausto conferisce a Israele e alla comunità ebraica
americana l'immunità da ogni legittima censura. L'ostilità degli arabi e quella
degli afroamericani? «In sostanza non sono una reazione a una valutazione
oggettiva delle azioni degli ebrei». (Goldhagen) (30) Si consideri Wiesel sulle
persecuzioni degli ebrei: «Per duemila anni [...] siamo sempre stati minacciati
[...] Perché? Non c'è una ragione». Sull'ostilità degli arabi nei confronti
d'Israele: «A causa di ciò che siamo, di quello che la nostra patria, Israele,
rappresenta (il centro della nostra vita, il sogno dei nostri sogni), quando i
nostri nemici cercano di distruggerci, lo fanno cercando di distruggere
Israele». Sull'ostilitá dei neri nei confronti degli ebrei americani: «Il
popolo che ha tratto ispirazione da noi non ci ringrazia ma ci si rivolta
contro. Ci troviamo in una situazione molto pericolosa. Ancora una volta siamo
il capro espiatorio per tutti [...] Abbiamo aiutato i neri, li abbiamo sempre
aiutati. Provo dispiacere per loro. C'è una cosa che dovrebbero imparare da noi
ed è la gratitudine. Nessun popolo al mondo conosce la gratitudine meglio di noi;
noi siamo eternamente grati». (31) Sempre puniti, sempre innocenti: è il
fardello dell'essere ebreo. (32)
Il dogma dell'odio eterno dei gentili convalida
inoltre il dogma complementare dell'unicità. Se l'Olocausto ha segnato l'apice
dell'odio millenario dei gentili nei confronti degli ebrei, la persecuzione di
non ebrei [78] nel corso dell'Olocausto fu puramente accidentale, così come
furono soltanto episodiche le persecuzioni di non ebrei nel corso della storia.
Quindi, da qualunque punto la si osservi, la sofferenza degli ebrei
nell'Olocausto fu unica.
In ultima analisi, la loro sofferenza fu unica
perché loro stessi sono unici. L'Olocausto fu unico in quanto non razionale e
il suo impeto fu la più irrazionale, anche se umanissima, delle passioni. I gentili
odiavano gli ebrei per una questione d'invidia, di gelosia: ressentiment. Secondo Nathan e Ruth Ann
Perlmutter, l'antisemitismo nacque dalla «gelosia e [dal] risentimento dei
gentili dovuti al fatto che negli affari gli ebrei erano migliori dei cristiani
[...] Un piccolo numero di ebrei di successo irritava un gran numero di gentili
di scarso successo». (33) Per quanto in negativo, l'Olocausto conferma quindi
che gli ebrei erano gli eletti: dal momento che sono migliori, o hanno più
successo, vanno incontro all'ira dei gentili, che per questo li hanno uccisi.
In una breve digressione, Novick si interroga su
«come sarebbe stato il discorso sull'Olocausto in America» se Elie Wiesel non
ne fosse stato il suo «interprete principale». (34) La risposta è abbastanza
semplice: prima del giugno 1967, tra gli ebrei americani risuonava il messaggio
universalista del sopravvissuto ai campi di sterminio Bruno Bettelheim. Dopo la
guerra dei Sei Giorni, Bettelheim fu messo da parte a favore di Wiesel, la [79]
cui posizione di primo piano deriva dalla sua utilità ideologica. Unicità della
sofferenza degli ebrei/unicità degli ebrei; eterna colpevolezza dei
gentili/eterna innocenza degli ebrei; difesa incondizionata d'Israele/difesa
incondizionata degli interessi degli ebrei: Elie Wiesel è l'Olocausto.
Nel declinare i dogmi chiave dell'Olocausto, gran
parte della letteratura sulla Soluzione Finale di Hitler perde ogni valore
scientifico; non per niente, quel campo di studi è zeppo di assurdità, se non
di vere e proprie frodi. Il milieu culturale che alimenta questa letteratura è
particolarmente illuminante.
La prima grande truffa sull'Olocausto fu The Painted Bird [L'uccello dipinto], dell'emigrato polacco Jerzy Kosinski. (35)
L'autore spiega che il libro fu «scritto in inglese» in modo che «io potessi
esprimermi spassionatamente, libero dalla connotazione emotiva che è insita
nella lingua d'origine». In realtà, tutte le parti davvero di suo pugno (quali
fossero precisamente è questione irrisolta) vennero stese in polacco. Il libro
venne spacciato come il racconto autobiografico delle solitarie peregrinazioni
di Kosinski bambino attraverso la campagna polacca durante la Seconda guerra
mondiale, ma in realtà per tutto il conflitto lui visse con i genitori. Il
leitmotiv del volume sono le sadiche torture sessuali inflitte dai contadini
polacchi. Chi lesse il testo prima [80] della pubblicazione lo derise come
«pornografia della violenza» e «il prodotto di una mente con ossessioni per la
violenza sadomasochistica». In effetti, Kosinski s'inventò quasi tutti gli
episodi di violenza patologica che narra e il libro dipinge i contadini
polacchi con i quali viveva come violentemente antisemiti. «Dagli al giudeo»
scherzano beffardi «dagliele a quei bastardi.» In realtà, i contadini polacchi
diedero ospitalità alla famiglia Kosinski, pur essendo perfettamente
consapevoli del fatto che i Kosinski erano ebrei e delle terribili conseguenze
che avrebbero dovuto affrontare se fossero stati scoperti.
Sulla «New York Times Book
Review», Elie Wiesel salutò The Painted
Bird come «uno dei migliori» atti d'accusa dell'era nazista, «scritto con
sincerità e sensibilità profonde». Più tardi Cynthia Ozick disse di avere
«immediatamente» riconosciuto l'autenticità di
Kosinski come «ebreo sopravvissuto e testimone
dell'Olocausto». Quando già da tempo Kosinski era stato smascherato come abile
truffatore letterario, Wiesel continuò a tessere elogi della sua «opera
meritevole». (36)
The Painted
Bird divenne un testo di riferimento per l'Olocausto: vendette moltissimo,
vinse premi, venne tradotto in molte lingue e fu adottato come libro di lettura
nelle scuole superiori e nei college. Nel compiere i suoi giri di conferenze
sull'Olocausto, Kosinski si autodefinì un «Elie Wiesel a tariffe scontate».
(Quelli che [81] non potevano permettersi l'onorario di una conferenza di
Wiesel - il «silenzio» non è a buon mercato - si rivolgevano a lui.) Pur
smascherato alla fine dall'inchiesta di un settimanale, fu ancora fermamente
difeso dal «New York Times», che sostenne che Kosinski era vittima di un
complotto comunista. (37)
Un libro-truffa più recente, Fragments [Frantumi: un
infanzia 1939-1948], di Binjamin
Wilkomirski , (38) adotta indiscriminatamente il
kitsch di The Painted Bird. Come
Kosinski, Wilkomirski ritrae se stesso nei panni di un bambino solo,
sopravvissuto all'Olocausto, che diventa muto, finisce in un orfanotrofio e
solo alla fine scopre di essere ebreo. Come in The Painted Bird, l'idea-guida narrativa è la voce sommessa di un
bambino, a cui si consente anche di lasciare nel vago i riferimenti temporali e
i nomi di luogo. Come in The Painted Bird,
ogni capitolo di Fragments culmina in
un'orgia di violenza. Kosinski spiegava The
Painted Bird come «il lento scongelamento della mente», Wilkomirski
definisce Fragments come «memoria
ritrovata». (39)
Per quanto sia una mistificazione in piena regola, Fragments rappresenta l'archetipo dei
libri di memorie sull'Olocausto, in primo luogo perché è ambientato nei campi
di concentramento, dove ogni guardia è un mostro di follia e sadismo che gode
nel fracassare il cranio ai neonati ebrei. Eppure, la tradizione memorialistica
dei campi di concentramento concorda con le afferma[82]zioni della dottoressa
Ella Lingens-Reiner, reduce di Auschwitz: «Di sadici ce n'erano pochi: non più
del cinque o dieci per cento». (40) Tuttavia, l'onnipresente sadismo dei
tedeschi appare soprattutto nella letteratura dell'Olocausto rendendo un
duplice servizio: «documenta» l'irrazionalità unica dell'Olocausto come pure
l'antisemitismo fanatico di coloro che lo perpetrarono.
La particolarità di Fragments sta nella sua descrizione della vita non durante ma dopo
l'Olocausto. Adottato da una famiglia svizzera, il piccolo Binjamin deve patire
nuovi supplizi, perché è intrappolato in un mondo di persone che negano
l'Olocausto. «Dimenticalo: è un brutto sogno» strilla la madre. «È stato solo
un brutto sogno [...] non devi pensarci più.» «In questo Paese» si arrabbia
«tutti non fanno che dirmi che devo dimenticare, che non è mai successo, che
l'ho soltanto sognato. Ma loro sanno tutto!»
Anche a scuola «i ragazzi mi indicano, mi mostrano i
pugni e gridano: "È matto, quello che dice non esiste. Bugiardo! È un
pazzo furioso, un demente"». (Detto tra noi: avevano ragione.) Nel
prenderlo a pugni, nel canzonarlo urlandogli filastrocche antisemite, tutti i
piccoli gentili si schierano contro il povero Binjamin, mentre gli adulti lo
rimproverano aspramente: «Stai dicendo bugie!»
Trascinato alla disperazione più nera, Binjamin ha
un'epifania dell'Olocausto . «II campo è ancora là, solo [83] che è nascosto e
ben mimetizzato. Hanno gettato le uniformi e si sono messi vestiti eleganti in
modo da non essere riconosciuti [...] Ma fate anche solo intuire loro che
forse, chissà, siete ebrei e vedrete: è la stessa gente, ne sono sicuro.
Possono ancora uccidere, anche senza uniforme.» Più che un omaggio al dogma
dell'Olocausto, Fragments è la prova
inconfutabile che perfino in Svizzera, nella Svizzera neutrale, tutti i gentili
vogliono uccidere gli ebrei.
Fragments
fu da molti salutato come un classico della letteratura dell'Olocausto: fu
tradotto in una dozzina di lingue e vinse il Jewish National Book Award, il
premio di «Jewish Quarterly» e il Prix de la Mémoire de la Shoah. Star dei
documentari televisivi, presenza dominante a conferenze e seminari
sull'Olocausto, personaggio pubblico impegnato nella raccolta di fondi per lo
United States Holocaust Memorial Museum, Wilkomirski divenne in breve tempo un
uomo-immagine dell'Olocausto.
Daniel Goldhagen, nell'acclamare Fragments come un «piccolo capolavoro»,
fu il principale sostenitore di Wilkomirski in ambito accademico. Comunque,
storici di fama come Raul Hilberg ci misero poco a giudicare il libro un
imbroglio. Fu Hilberg a porre le domande giuste dopo la scoperta della truffa: «Come è possibile che questo volume
abbia circolato come libro di memorie in molte case editrici? Come può essere
[84] valso al signor Wilkomirski inviti presso lo United States Holocaust
Museum e presso università di fama? Come è possibile che non abbiamo un
controllo della qualità degno di questo nome quando bisogna decidere della
pubblicazione di testi sull'Olocausto?». (41)
Metà matto e metà saltimbanco, Wilkomirski, si
scoprì, aveva trascorso in Svizzera tutto il periodo della guerra e non era
nemmeno ebreo. Ma restano interessanti le parole pronunciate post factum da parte dell'industria
dell'Olocausto: (42)
Arthur Samuelson (editore): «Fragments è un libro davvero riuscito [...] ed è un imbroglio solo se
lo considerate non-fiction. In una collana di fiction lo ripubblicherei. E se
quello che scrive non è vero, significa che è un bravo scrittore!»
Ma c'è di più. Israel Gutman è un dirigente dello
Yad Vashem e tiene conferenze sull'Olocausto alla Hebrew University. È anche
stato internato ad Auschwitz. Secondo lui, che Fragments sia un imbroglio «non è così importante». «Wilkomirski ha
scritto una storia che ha sentito nel profondo, questo è certo [...] Non è un
impostore, è uno che ha vissuto questa storia fin dentro l'anima. Il dolore è
autentico.» Quindi non importa se abbia passato la guerra in un campo di
concentramento o in uno chalet svizzero: Wilkomirski non è un [85] impostore se
il suo dolore «è autentico». Così parla un sopravvissuto ad Auschwitz diventato
un esperto di Olocausto. Gli altri meritano disprezzo, Gutman solamente pietà.
«The New Yorker» titolò il suo servizio sulla truffa
di Wilkomirski Stealing the Holocaust
[Rubare l'Olocausto]. Ieri Wilkomirski veniva acclamato per le sue storie sulla
malvagità dei gentili, oggi viene messo in croce come un gentile malvagio. In
ogni caso, è sempre colpa dei
gentili. È certamente vero che Wilkomirski ha costruito il suo passato di
persecuzioni, ma è ancora più vero che l'industria dell'Olocausto, edificata su
un appropriazione indebita della storia a fini ideologici, era pronta per
celebrare la falsificazione di Wilkomirski, un «sopravvissuto» all'Olocausto in
attesa di essere scoperto.
Nell'ottobre 1999, l'editore tedesco di Wilkomirski,
ritirando Fragments dalle librerie,
ammise pubblicamente che l'autore non era un orfano ebreo ma uno svizzero di
nome Bruno Doessecker. Informato del fatto che la montatura era stata scoperta,
Wilkomirski tuonò con insolenza: «Binjamin Wilkomirski sono io!». Non più di un
mese dopo, Schocken, l'editore americano, mise Fragments fuori catalogo. (43)
Si consideri ora la letteratura
secondaria sull'Olocausto. Un segno rivelatore di questo genere di
pubblicistica è lo spazio accordato al «complotto arabo». Benché, co[86]me
afferma Novick, il Mufti di Gerusalemme non ebbe «alcuna parte significativa
nell'Olocausto», l'Encyclopedia of tbe
Holocaust [L'enciclopedia
dell'Olocausto], un'opera in quattro volumi curata da Israel Gutman, gli
assegna un «ruolo di primo piano». Il Mufti ha il suo nome in bella evidenza
anche allo Yad Vashem, dove «il visitatore è portato a concludere» scrive Tom
Segev, «che i piani nazisti di sterminio degli ebrei e l'odio arabo nei
confronti d'Israele hanno molto in comune». Commentando una commemorazione di
Auschwitz officiata da rappresentanti del clero di tutte le religioni, Wiesel.
sollevò obiezioni solamente alla
presenza di un qadi musulmano:
«Vogliamo dimenticarci [...] del Mufti Hajj Amin
el-Husseini di Gerusalemme, l'amico di
Heinrich Himmler?» Tra l'altro, se il Mufti è stato
una figura così centrale nella Soluzione Finale, c'è da chiedersi perché
Israele non l'abbia trascinato in tribunale, come fece con Eichmann: dopo la
guerra, il Mufti visse a un passo da Israele, in Libano, e senza nascondersi.
(44)
Fu soprattutto alla vigilia della sfortunata
invasione del Libano del 1982, e quando i proclami della propaganda ufficiale
israeliana finirono sotto il pesante attacco dei «nuovi storici» israeliani,
che i difensori cercarono disperatamente di fare un solo fascio di arabi e
nazisti. Il famoso storico Bernard Lewis riuscì a dedicare al nazismo arabo un
intero capitolo della sua breve storia dell'antisemitismo e ben tre pagine
della sua «breve [87] storia degli ultimi duemila anni» del Medio Oriente.
All'estremo opposto, quello progressista, Michael Berenbaum, del Washington
Holocaust Memorial Museum, concesse generosamente che «le pietre lanciate dai
giovani palestinesi infuriati dalla presenza israeliana [...] non stanno sullo
stesso piano dell'attacco nazista contro civili ebrei inermi». (45)
La bizzarria più recente sull'Olocausto è il libro
di Daniel Jonah Goldhagen, Hitler's
Willing Executioners. Tutti i più importanti giornali d'opinione
pubblicarono una o più recensioni del volume nelle settimane in cui uscì in
libreria. Il «New York Times» gli concesse ampio spazio e lo acclamò come «uno
di quei rari nuovi libri che meritano l'appellativo di pietra miliare» (Richard
Bernstein). Forte del mezzo milione di copie vendute e delle traduzioni in
tredici lingue, HitIer's Wiling
Executioners venne salutato da «Time» come il libro «di cui si parla di
più» e il secondo miglior saggio dell'anno. (46)
Sottolineando il «notevole lavoro di ricerca» e la
«profusione di prove [...] sostenuta da una mole impressionante di documenti e
fatti», Elie Wiesel celebrò Hitler's
Willing Executioners come un «contributo determinante per la comprensione e
l'insegnamento dell'Olocausto». Israel Gutman lo elogio per «aver sollevato con
chiarezza nuovi fondamentali problemi» che «la maggior parte degli studi
sull'Olocausto» aveva ignorato. Chiamato a coprire la cattedra di storia
dell'Olo[88]causto alla Harvard University (47), elevato allo stesso rango di
Wiesel dai media americani, in breve tempo Goldhagen divenne omnipresente nel
sistema propagandistico dell'Olocausto.
La tesi centrale del libro è il dogma dell'Olocausto
nella versione più diffusa: trascinato da un odio patologico, il popolo tedesco
approfittò dell'opportunità offerta da Hitler per uccidere gli ebrei. Anche
Yehuda Bauer, scrittore di punta dell'Olocausto, dirigente dello Yad Vashem e
con un incarico alla Hebrew University, ha abbracciato questo dogma. Molti anni
fa, riflettendo sull'atteggiamento mentale dei tedeschi, scrisse: «Gli ebrei
furono uccisi da persone che per la maggior parte non provavano odio verso di
loro [...] I tedeschi non avevano bisogno di odiare gli ebrei per ammazzarli».
Eppure, in una recente recensione al libro di Goldhagen, Bauer ha sostenuto
l'esatto contrario: «Dalla fine degli anni Trenta in poi, la scena fu dominata
dalle forme più radicali di tendenze omicide [...] A partire dallo scoppio
della Seconda guerra mondiale, la stragrande maggioranza dei tedeschi si era
identificata con il regime e con la sua politica antisemita a un punto tale che
reclutare gli assassini era facile». A chi gli fece notare questa discrepanza,
Bauer rispose: «Non vedo alcuna contraddizione tra queste due affermazioni».
(48)
Nonostante sfoggi l'apparato di un saggio
accademi[89]co, Hitler's Willing
Executioners si riduce a poco più di un campionario di violenza sadica. Non
c'è dunque da stupirsi che Goldhagen abbia difeso Wilkomirski a spada tratta: Hitler's Willing Executioners non è che Fragments con l'aggiunta delle note a
piè di pagina. Zeppo di grossolani errori di interpretazione delle fonti e di
contraddizioni interne, Hitler's Willing
Executioners è privo di valore scientifico. In A Nation on Trial [Una nazione sotto processo], Ruth Bettina Birn e
chi scrive hanno documentato la pochezza dell'opera di Goldhagen. La successiva
controversia ha gettato utilmente luce sul funzionamento dell'industria
dell'Olocausto.
Birn, la maggiore autorità riconosciuta a livello
mondiale sugli archivi consultati da Goldhagen, dapprima pubblicò i suoi
rilievi critici sull'«Historical journal» di Cambridge. Rifiutando l'invito
della rivista a confutare le tesi della studiosa, Goldhagen si rivolse invece a
un potentissimo studio legale di Londra perchè citasse «per le molte gravi
calunnie» Birn e la Cambridge University Press. Nell'avanzare una formale
richiesta di scuse, di una ritrattazione e della promessa da parte di Bim che
non avrebbe ripetuto le sue critiche, gli avvocati di Goldhagen minacciarono
inoltre che «qualunque forma di pubblicità che lei darà a questa lettera
comporterà un ulteriore aggravio dei danni».
Quando le analoghe critiche del sottoscritto furono
pubblicate sulla «New Left: Review», Metropolitan, una [90] casa editrice del
gruppo Henry Holt, acconsentì a pubblicare i due saggi riuniti in un volume. In
un articolo di prima pagina, il «Forward» avvertiva che Metropolitan si stava
«preparando a pubblicare un libro di Norman Finkelstein, noto oppositore
ideologico dello Stato d'Israele». Il «Forward» riveste il ruolo di guardiano
principale della «correttezza (politica) sull'Olocausto» negli Stati Uniti.
Sostenendo che «gli evidenti
pregiudizi e le dichiarazioni temerarie di Finkelstein [...] sono infettati
dalla sua posizione antisionista», Abraham Foxman, capo dell'ADL, invitò
Holt a sospendere la pubblicazione del libro: «La
questione [...] non è se la tesi di Goldhagen sia giusta o sbagliata, ma che
cosa sia "critica legittimá" e che cosa sia inaccettabile». «La
questione» fu la risposta di Sara Bershtel, condirettore editoriale di
Metropolitan, «è precisamente se la tesi di Goldhagen sia giusta o sbagliata.»
Leon Wieseltier, responsabile della sezione
letteraria del filoisraeliano «New Republic», intervenne personalmente presso
il presidente del gruppo Holt, Michael Naumann. «Lei non conosce Finkelstein: è
veleno, è uno di quei disgustosi ebrei odiatori di se stessi, un verme.» Nel
definire «una disgrazia» la decisione della Holt, Elan Steinberg, segretario
del Congresso Mondiale Ebraico, commentò: «Se hanno voglia di rovistare nella
spazzatura, che almeno indossino tute protettive».
[91] In seguito Naumann ricordò: «Non avevo mai
visto un simile tentativo, da parte di una fazione interessata, di gettare
pubblicamente un'ombra su un libro in fase di pubblicazione». Tom Segev, noto
storico e giornalista israeliano, osservò su «Haaretz» che quella campagna
sfiorava il «terrorismo culturale».
In qualità di storico responsabile della Sezione
crimini di guerra e crimini contro l'umanità del Canadian Department of
justice, Birn venne subito attaccata dalle organizzazioni ebraiche canadesi.
Sostenendo che io ero «detestato dalla stragrande maggioranza degli ebrei di
questo continente», il Canadian Jewish Congress denunciò la collaborazione di
Birn al libro. Tentando di utilizzare il datore di lavoro di Birn per
esercitare pressione su di lei, il CJC presentò una protesta al Dipartimento di
Giustizia. Questa azione, accompagnata da un rapporto ispirato dal CJC che
definiva Birn «un membro della razza che ha perpetrato l'Olocausto» (è nata in
Germania), le valse un'indagine ufficiale.
Persino dopo la pubblicazione del
libro, gli attacchi personali non cessarono. Goldhagen sostenne che Birn, che
ha fatto della caccia ai criminali di guerra nazisti la ragione della sua vita,
era una sostenitrice dell'antisemitismo e che io ero dell'opinione che le
vittime del nazismo, compresa tutta la mia famiglia, meritavano di morire. (49)
Stanley
Hoffmann e Charles Maier, colleghi di Goldhagen
all'Harvard Center for Euro[92]pean Studies, presero pubblicamente posizione
schierandosi al suo fianco. (50)
Definendo una «fandonia» le accuse di censura, «New
Republic» replicò che «tra censurare e mantenere standard di decenza
storiografica c'è differenza». A Nation
on Trial ha ricevuto apprezzamenti da storici di chiara fama dell'Olocausto
nazista, tra i quali Raul Hilberg, Christopher Browning e Ian Kershaw. Questi
stessi studiosi non hanno apprezzato il libro di Goldhagen (Hilberg l'ha
definito «di nessun valore»). Questo per rispondere a «New Republic» e ai suoi
standard.
Si consideri infine questo schema: Wiesel e Gutman
hanno sostenuto Goldhagen; Wiesel ha sostenuto Kosinski; Gutman e Goldhagen
hanno sostenuto Wilkomirski. Mettete insieme i giocatori: questa è la
letteratura dell'Olocausto.
Nonostante tutto il sensazionalismo, non c'è prova
che coloro che negano l'esistenza dell'Olocausto esercitino negli Stati Uniti
più influenza di chi sostiene che la Terra è piatta. Se si considera il profluvio di sciocchezze prodotto quotidianamente
dall'industria dell'Olocausto, c'è da stupirsi che gli scettici siano così
pochi. Il motivo che sta dietro alla denuncia del presunto diffondersi del
negazionismo dell'Olocausto è facilmente comprensibile: in una società saturata
dall'Olocausto, come meglio giustificare l'ennesimo museo, libro, film e
programma se non agitando lo spauracchio della negazio[93]ne? Per questo motivo
l'acclamato libro di Deborah Lipstadt, Denying
the Holocaust [Negare l'Olocausto],
(51) insieme ai risultati di un'indagine mal formulata dell'AJC che sosteneva
il diffondersi della negazione, (52) furono pubblicati proprio mentre il
Washington Holocaust Memorial Muscum apriva i battenti.
Denying the
Holocaust riesce se non altro ad aggiornarci su quali siano i libelli del
«nuovo antisemitismo». Per documentare la diffusione del negazionismo, Lipstadt
cita infatti un piccolo numero di pubblicazioni strambe. Il suo pezzo forte è
Arthur Butz, un emerito sconosciuto che insegna ingegneria elettrica alla
Northwestern University e che ha pubblicato il suo lìbro, The Hoax of the Twentieth Century [La truffa del ventesimo secolo], presso un'oscura casa editrice.
Lipstadt intitola il capitolo che lo riguarda «Dentro la tradizione». Non fosse
per studiosi come Lipstadt, non avremmo mai sentito parlare di Arthur Butz.
In verità, l'unico, vero negatore tradizionale
dell'Olocausto è Bernard Lewis. Un tribunale francese lo ha persino
riconosciuto colpevole di avere negato il genocidio. Solo che Lewis ha negato
il genocidio degli armeni perpetrato dai turchi durante la Prima guerra
mondiale, non quello degli ebrei; inoltre Lewis è filoisraeliano. (53) Di
conseguenza, questa negazione di un olocausto non ha indignato nessuno negli Stati
Uniti. A peggiorare le cose, la Turchia è un alleato d'Israele; di [94]
conseguenza, fare menzione di un genocidio degli armeni è tabù. Elie Wiesel e
il rabbino Arthur Hertzberg, come pure l'AJC e lo Yad Vashem, si ritirarono da
un convegno internazionale sul genocidio a Tel Aviv perché i suoi
organizzatori, resistendo alle insistenze del governo israeliano, avevano
incluso alcune sessioni dedicate al caso armeno. Wiesel tentò anche,
unilateralmente, di fare fallire la conferenza e, secondo Yehuda Bauer, fece
personalmente pressione su altri perché non partecipassero. (54) Agendo su
ordine d'Israele, lo US Holocaust Council eliminò in pratica ogni riferimento
agli armeni nel Washington Holocaust Memorial Museum e i lobbisti ebrei del
Congresso impedirono l'istituzione dì una giornata di ricordo del genocidio
armeno. (55)
Mettere in discussione la testimonianza di un
sopravvissuto, denunciare il ruolo degli ebrei collaborazionisti, far presente
che i tedeschi soffrirono sotto il bombardamento di Dresda o che nel corso
della Seconda guerra mondiale altri Stati oltre la Germania commisero crimini:
tutto ciò, secondo Lipstadt, equivale a negare l'Olocausto. (56) Allo stesso
modo, asserire che Wiesel ha tratto profitto dall'industria dell'Olocausto, o
anche soltanto mettere in discussione le sue parole, equivale a negare
l'Olocausto. (57)
Le forme più «insidiose» di negazione
dell'Olocausto, suggerisce Lipstadt, sono i «paragoni immorali», [95] vale a
dire le negazioni dell'unicità dell'Olocausto. (58) Questo argomento ha
conseguenze interessanti. Daniel Goldhagen sostiene che le azioni serbe in
Kosovo «sono, nella loro sostanza, diverse solamente nelle proporzioni da
quelle dei nazisti». (59) La qual cosa farebbe «in sostanza» di Goldhagen un
negatore dell'Olocausto. In verità, i commentatori israeliani indipendentemente
dall'appartenenza politica paragonarono le azioni della Serbia in Kosovo a
quelle degli israeliani contro i palestinesi nel 1948. (60)
Dunque, secondo il ragionamento di Goldhagen,
Israele perpetrò un olocausto. Nemmeno i palestinesi lo sostenevano più.
Non tutta la letteratura revisionista, per quanto
volgari possano essere la politica o le motivazioni di chi la pratica, è
inutile. Lipstadt bolla David Irving come «uno dei più pericolosi portavoce
della negazione dell'Olocausto» (Irving ha perso qualche tempo fa a Londra una
causa per diffamazione innescata da questa e altre affermazioni). Ma Irving,
notorio ammiratore di Hìtler e simpatizzante del nazionalsocialismo tedesco, ha
nondimeno - sottolinea Gordon Craig - dato un contributo «fondamentale» alla
nostra conoscenza della Seconda guerra mondiale. Arno Mayer, nel suo importante
studio sull'Olocausto nazista, e Raul Hilberg fanno riferimento a pubblicazioni
che negano l'Olocausto. «Se queste persone vogliono dire qualcosa, lasciatele
fare» dice Hilberg. «Fanno in modo che quelli di noi che [96] fanno ricerca
riprendano in esame ciò che avrebbero potuto considerare ovvio. E per noi è
utile.» (61)
I giorni della Memoria dell'Olocausto sono un evento
nazionale: tutti e cinquanta gli Stati americani organizzano commemorazioni,
che spesso si tengono nelle aule dei parlamenti. L'Association of Holocaust
Organizations conta oltre cento istituzioni legate all'Olocausto negli Stati
Uniti, sul cui territorio esistono sette grandi musei dell'Olocausto. Il nucleo
centrale è lo United States Holocaust Memorial Museum di Washington.
La prima domanda è perché dobbiamo avere nella
capitale un museo dell'Olocausto finanziato e diretto dall'autorità federale.
La sua presenza sul Washington Mall risulta particolarmente incoerente, vista
l'assenza di un museo che commemori i crimini perpetrati durante la storia
americana. Immaginate quali lamenti e accuse d'ipocrisia si leverebbero in
America se in Germania decidessero di costruire un museo nazionale a Berlino
per commemorare non l'Olocausto nazista, ma lo schiavismo americano oppure il
genocidio dei nativi americani. (62)
Il museo «cerca meticolosamente di astenersi da ogni
tentativo di indottrinamento» ha scritto il suo ideatore «e da ogni
manipolazione delle emozioni e dei sentimenti». Eppure, dal progetto fino alla
sua realizza[97]zione, la storia del museo è una storia politica. (63) Con una
campagna per la rielezione all'orizzonte, Jimmy Carter diede il via al progetto
per placare finanziatori e sostenitori ebrei, irritati dal riconoscimento da
parte del presidente dei «legittimi diritti» dei palestinesi. Il presidente
della Conferenza dei presidenti delle maggiori organizzazioni ebraiche
americane, il rabbino Alexander SchindIer, deplorò il riconoscimento da parte
di Carter dei diritti umani dei palestinesi come un'iniziativa «scandalosa».
Carter annunciò il progetto del museo mentre il Primo ministro Menachem Begin
si trovava in visita a Washington e il Congresso era nel pieno di una dura
battaglia circa la proposta da parte del governo di vendere armi all'Arabia
Saudita. Ma una visita al museo evidenzia altre questioni politiche:
l'allestimento mette la sordina all'origine cristiana dell'antisemitismo europeo
in modo da non offendere una consistente forza elettorale, minimizza la
discriminazione delle quote d'immigrazione americane prima della guerra,
esagera il ruolo statunitense nella liberazione dei campi di concentramento e
passa sotto silenzio il massiccio reclutamento, da parte degli americani, di
criminali di guerra nazisti alla fine del conflitto. Il messaggio dominante,
nel museo, è che «noi» non potremmo neppure concepire, tanto meno commettere,
simili malvagità. L'Olocausto «è in aperta contraddizione con lo spirito
americano» osserva Michael Beren[98]baum nella guida al museo. «Nella [sua]
perpetrazione vediamo la violazione di ogni valore fondamentale per l'America.»
Alla fine, con le scene degli ebrei sopravvissuti che cercano di entrare in Palestina,
il museo dell'Olocausto esprime la tesi sionista, secondo cui Israele fu la
«risposta appropriata al nazismo». (64)
La politicizzazione ha inizio ben prima che si
varchi la soglia del museo. La sua sede è in Raoul Wallenberg Place. Wallenberg
era un diplomatico svedese, onorato perché salvò migliaia di ebrei e finì i
suoi giorni in una prigione sovietica. Un altro svedese, il conte Folke
Bernadotte, non ha ricevuto gli stessi onori perché, pur avendo anche lui
salvato migliaia di ebrei, venne ucciso per ordine dell'ex Primo ministro
israeliano Yitzak Shamir in quanto troppo «filoarabo». (65)
Il punto cruciale della politica del museo
dell'Olocausto, comunque, riguarda l'oggetto
di quest'opera di memorializzazione. Gli ebrei furono le sole vittime dell'Olocausto
oppure contano anche gli altri che perirono a causa delle persecuzioni naziste?
(66) Durante le fasi di progettazione del museo, Elie Wiesel (insieme a Yehuda
Bauer dello Yad Vashem) condusse l'offensiva a favore della commemorazione dei
soli ebrei. Presentato come l'«esperto incontestabile dell'epoca
dell'Olocausto», Wiesel sostenne tenacemente la tesi secondo cui gli ebrei
furono le vittime preminenti. «Come sempre, hanno cominciato con gli ebrei»
intonò «e come [99] sempre, non si sono fermati agli ebrei.» (67) Eppure, non
gli ebrei ma i comunisti furono le prime vittime politiche e non gli ebrei ma
gli handicappati furono oggetto del primo genocidio da parte dei nazisti. (68)
Giustificare la preminenza data al genocidio degli
ebrei rispetto a quello degli zingari é stata l'impresa più difficile per
l'Holocaust Museum. I nazisti uccisero sistematicamente non meno di mezzo
milione di zingari, una cifra, in proporzione, pari a quella del genocidio
degli ebrei. (69) Gli scrittori dell'industria dell'Olocausto come Yehuda Bauer
ritengono che gli zingari non furono vittime della stessa violenza genocida, ma
rispettati storici della Shoah come Henry Friedlander e Raul Hilberg hanno sostenuto
il contrario. (70)
Dietro la scarsa attenzione prestata al genoddio
degli zingari da parte del museo si nascondono svariate ragioni. Innanzitutto,
paragonare la perdita della vita di un ebreo e quella di uno zingaro è
semplicemente impossibile. Liquidando come «assurda» la richiesta di una
rappresentanza zingara allo US Holocaust Memorial Council, il rabbino Seymour
Siegel, direttore generale dell'organizzazione, mise in dubbio persino la
stessa «esistenza» degli zingari come gruppo etnico: «Bisognerebbe dare un
qualche riconoscimento al popolo zingaro sempre ammesso che esista». Il rabbino
ha peraltro ammesso che «sotto il nazismo ebbero a soffrire». Edward Linenthal
ricorda il «profondo sospetto» dei [100] rappresentanti zingari nei confronti
dell'Holocaust Memorial Council, «rafforzato dalla piena evidenza che alcuni
suoi membri vedevano la partecipazione dei Rom al museo nello stesso modo in
cui una famiglia si trova tra i piedi dei parenti non invitati e imbarazzanti».
(71)
Secondo motivo: riconoscere il genocidio degli
zingari avrebbe comportato la perdita dell'esclusiva degli ebrei
sull'Olocausto, con una perdita cospicua di «capitale morale». Terzo motivo: se
i nazisti hanno perseguitato zingari ed ebrei allo stesso modo, allora
l'assioma che l'Olocausto ha segnato il culmine dell'odio millenario dei
gentili nei confronti degli ebrei è evidentemente insostenibile. Parimenti, se
l'invidia dei gentili ha spinto al genocidio, con gli zingari è forse successa
la stessa cosa? Nella parte del museo dedicata alla mostra permanente, i non
ebrei vittime del nazismo ricevono un riconoscimento solamente simbolico. (72)
Infine, l'agenda politica del museo dell'Olocausto
ha subito anche l'influenza del conflitto tra israeliani e palestinesi. Prima
di diventare direttore del museo, Walter Reich ha scritto un peana in onore di From Time Immemorial [Da tempo
immemorabile], il fraudolento libro dove Joan Peters sostiene che la Palestina,
prima della colonizzazione sionista, era completamente vuota. (73) Sotto pressioni
del Dipartimento di Stato, Reich è stato costretto a dare le dimissioni dopo
essersi rifiutato di invitare Yasser Arafat, nel frattempo divenuto alleato
compiacente degli Stati Uniti, a visitare il museo. In seguito, dopo avere
accettato una posizione da vicedirettore, il teologo dell'Olocausto John Roth é
stato portato per esasperazione alle dimissioni a causa delle critiche che in
passato aveva rivolto a Israele. Nel ripudiare un libro originariamente
sostenuto dal museo con la spiegazione che comprendeva un capitolo firmato da
Benny Morris, un noto storico israeliano critico nei confronti d'Israele, il
presidente del museo, Miles Lerman, ha dichiarato: «Mettere questo museo sul
fronte opposto d'Israele è inconcepibile». (74)
Sulla scia dei terribili attacchi israeliani al Libano nel
1996, culminati nel massacro di oltre cento civili a Qana, Ari Shavit,
editorialista di «Haaretz», osservò che Israele poteva agire impunemente perché
«abbiamo l'Anti-Defamation League e lo Yad Vashem e il museo dell'Olocausto».
(75)
capitolo 2
Note
1. Boas
Evron, Holocaust. The Uses of Disaster,
in «Radical America», luglio-agosto 1983, 15.
2. Sulla
distinzione tra letteratura sull'Olocausto e studi sull'Olocausto nazista si
veda Finkelstein e Birn, Nation,
parte prima, terza sezione.
3. Jacob
Neusner (a cura di), Judaism in Cold War
America, 1945-1990, II volume: In the
Aftermath of the Holocaust, New York 1993, VIII.
4. David
Stannard, Uniqueness as Denial in
Alan Rosenbaum (a cura di), Is the
Holocaust Unique?, Boulder 1996, 193.
5. Jean-Michel
Chaumont, La concurrence des victimes,
Parigi 1997, 148-49. L'analisi del dibattito sull'«unicità dell'Olocausto»
condotta da Chaumont è un tour de force. Eppure, la sua tesi portante non è
convincente, almeno per quanto riguarda lo scenario americano. Secondo il
autore, il fenomeno dell'Olocausto trae origine dalla tardiva ricerca, da parte
degli ebrei sopravvissuti, di un riconoscimento pubblico per le sofferenze
passate. Ma i sopravvissuti quasi non appaiono nella fase iniziale in cui
l'Olocausto fu spinto sotto i riflettori.
6. Steven
T. Katz, The Holocaust Context,
Oxford 1994, 28, 58,60.
7. Chaumont, La Concurrence, 137.
8. Novick, The Holocaust, 200-1, 211-12. Wiesel, Against Silence, I volume, 158, 211,
239, 272; II volume, 62, 81, 111, 278, 293, 347, 371; III
volume, 153, 243. Elie Wiesel, All Rivers
Run to the Sea, New York 1995, 89. L'informazione sul cachet per una
conferenza di Wiesel è stata fornita da Ruth Wheat, del Bnai Brith Lecture
Bureau. «Le parole» secondo Wiesel. «sono una sorta di approccio orizzontale,
mentre il silenzio ve ne offre uno verticale, in cui tuffarsi.» Wiesel si
paracaduta nelle sue conferenze ?
9. Wiesel, Against Silence, III volume, 146.
10. Wiesel, And the Sea, 95. Si confrontino questi
due brani tratti da due articoli:
«Ken Livingstone, ex membro del Partito laburista, attualmente
in corsa come indipendente per la carica di sindaco a Londra, ha irritato gli
ebrei inglesi dicendo che il capitalismo globale è costato tante vittime quante
la Seconda guerra mondiale. "Ogni anno il sistema finanziario
internazionale uccide più persone di quanto abbia fatto la Seconda guerra
mondiale, ma almeno Hitler era un pazzo, no?» [...] "È un insulto a tutti
quelli che sono stati uccisi e perseguitati da HitIer" ha detto John
Butterfill, membro conservatore del Parlamento. Butterfill ha aggiunto che
l'accusa di Livingstone nei confronti del sistema finanziario globale
sconfinava decisamente nell'antisemitismo.»
(Livingstone's
Words Anger Jews, in «International Herald Tribune», 13 aprile 2000).
«Il presidente cubano Fidel Castro ha accusato il
sistema capitalistico di essere regolarmente la causa di morti in numero
paragonabile alle vittime della Seconda guerra mondiale perché ignora i bisogni
dei poveri. 'Ie immagini che vediamo di madri e bambini che soffrono la sete e
altri flagelli nelle regioni africane richiamano alla mente quelle dei campi di
concentramento della Germania nazista." Riferendosi ai processi per i
crimini di guerra dopo la Seconda guerra mondiale, il leader cubano ha
affermato: "Ci manca una Norimberga che giudichi l'ordine economico
impostoci, grazie al quale ogni tre anni muoiono di fame e di malattie più
uomini, donne e bambini di quanti ne sono morti nella Seconda guerra mondiale».
[...]
A New York, Abraham Foxman, direttore nazionale
dell'Anti-Defamation League, ha commentato [...]: "La povertà è una
questione grave, dolorosa e forse mortale, ma non c'entra con l'Olocausto e i
campi di c concentramento".» (John Rice, Castro Viciously Attacks Capitalism, in «Associated Press», 13
aprile 2000. )
11. Wiesel, Against Silence, III volume, 156, 160,
163, 177.
12. Chaumont, La concurrence, 156. L'autore
sottolinea efficacemente anche il fatto che sostenere la malvagità
incomprensibile dell'Olocausto non può conciliarsi con l'affermazione per la
quale i suoi esecutori erano del tutto normali (310).
13. Katz, The Holocaust, 19, 22. «Pretendere che
l'affermazione di unicità dell'Olocausto non sia una forma di odioso paragone
produce sistematicamente delle acrobazie verbali», osserva Novick. «C'è
qualcuno [...] che crede che l'affermazione di unicità sia qualcosa di diverso
da un'affermazione di primato?» (In corsivo nell'originale.) Ma lo stesso
Novick indulge deplorevolmente in questo odioso paragone. Così, sostiene che,
pur costituendo un modo per sfuggire alle responsabilità morali degli
americani, «l'affermazione reiterata che qualunque cosa gli Stati Uniti possano
avere fatto ai neri, ai nativi americani, ai vietnamiti o ad altri scompare in
confronto all'Olocausto è vera». (The
Holocaust, 197, 15).
14. Jacob
Neusner, A «Holocaust» Primer, 178. Edward Alexander, Stealing the Holocaust, 15-16, in Neusner, Aftermath.
15. Peter
Baldwin (a cura di), Reworking the Past,
Boston 1990, 21.
16. Nathan
Glazer, American Judaism, Chicago
1973 (seconda edizione), 171.
17. Seymour
M. Hersh, The Samson Option, New York
1991, 22. Avner Cohen, Israel and the
Bomb, New York 1998, 10, 122, 342.
18. Ismar
Schorsch, The Holocaust and jewish
Survival in «Midstream», gennaio 1981, 39. Chaumont dimostra in modo
assolutamente convincente che l'affermazione di unicità dell'Olocausto trae la
propria origine (e acquista un senso coerente solamente all'interno di quel
contesto) dal dogma religioso degli ebrei come popolo eletto.
19. Wiesel, Against Silence, I volume, 153. Wiesel, And the Sea, 133.
20. Novick, The Holocaust, 59, 158-59.
21. Wiesel, And the Sea, 68.
22. Daniel
Jonah Goldhagen, Hitler's Willing
Executioners, New York 1996. Per una critica, si veda FinkeIstein e Birn, Nation.
23. Hannah
Arendt, The Origins of Totalitarism,
7.
24. Cynthia
Ozick, All the World Wants the Jews Dead,
in «Esquire», novembre 1974.
25. Boas
Evron, Jewish State or Israeli Nation,
Bloomington 1995, 226-27.
26. Goldhagen, Hitler's Willing Executioners, 34-35,
39, 42. Wiesel, And the Sea, 48.
27. John
Murray Cuddihy, The Elephant and the
Angels: The Incivil Irritatingness of jewish Theodicy, in Robert N. Bellah
e Frederick E. Greenspahn (a cura di),
Uncivil Religion, New York 1987, 24. Oltre a questo articolo, si veda il
suo The Holocaust. The Latent Issue in
the Uniqueness Debate, in P.E Gallagher (a cura di), Christians, Jews, and Other World, HighIand Lakes (NJ) 1987.
28. Schorsch, The Holocaust, 39. Incidentalmente,
anche l'asserzione che gli ebrei costituiscano una minoranza «dotata» è, a mio
modo di vedere, una «versione secolare e di cattivo gusto dell'ideologia del
popolo eletto».
29. Dal
momento che un'esposizione completa di questo punto non rientra negli obiettivi
di questo saggio, si consideri solamente la prima proposizione. La guerra mossa
da Hitler contro gli ebrei, anche se irrazionale (e già questa è di per sé una
questione complessa), certo non potrebbe costituire un caso storico unico. Si
ricordi, per esempio, la tesi portante del trattato di Joseph Schumpeter
sull'imperialismo: «La propensione nonrazionale e irrazionale, puramente
istintiva verso la guerra e la conquista gioca un ruolo di primo piano nella
storia dell'umanità [[...] Un numero incalcolabile di guerre, forse la maggior
parte di esse, è stato mosso senza che in gioco ci fossero [...] interessi
ragionevoli e ragionati». Joseph Schumpeter,
The Sociology of Imperialism, in Paul Sweezy (a cura di), Imperialism and Social Classes, New
York 1951, 83.
30. Per
Goldhagen, si veda la nota 26. Evitando esplicitamente la rappresentazione
dell'Olocausto, il recente saggio di Albert S. Lindemann sull'antisemitisimo
prende le mosse dalla premessa che «per quanto grande sia il potere dei mito,
non tutta l'ostilità nei confronti degli ebrei - quella individuale come quella
collettiva - si è fondata su una percezione fantastica o chimerica o su
proiezioni sganciate da una realtà esperibile. In quanto esseri umani, gli
ebrei sono stati capaci come qualunque altro gruppo di suscitare ostilità nella
vita di tutti i giorni». (Esau's Tears,
Cambridge 1997, XVII).
31. Wiesel, Against Silence, I volume, 255, 384.
32. Chaumont
sottolinea con efficacia il fatto che il dogma dell'Olocausto sortisce
l'effetto di rendere più accettabili gli altri crimini. L'insistenza sulla
completa innocenza degli ebrei (per esempio, l'assenza di un qualunque motivo
razionale a sostegno della loro persecuzione, per non parlare dei loro
sterminio) «presuppone che, in altre circostanze, persecuzioni e sterminio
possano essere qualcosa di "normale" e crea una divisione di fatto
tra crimini incondizionatamente intollerabili e crimini con i quali si deve (e
di conseguenza si può) convivere» (La concurrence, 176).
33. Perlmutter, Anti-Semitism, 36, 40.
34. Novick, The Holocaust, 351 n.19.
35. New
York 1965. Per il contesto, faccio riferimento a James Park Sloan, Jerzy Kosinski, New York 1996.
36.
Elie Wiesel,
Everybody's Victim, in «New York Times Book Review», 31 ottobre 1965. La
citazione di Ozick è tratta da Sloan, 304-5. L'ammirazione di Wiesel per
Kosinski non sorprende. Questi voleva analizzare il
«nuovo linguaggio», Wiesel «forgiare il nuovo linguaggio» dell'Olocausto. Per
Kosinski «ciò che sta tra due momenti è al tempo stesso un commento su quel
momento e qualcosa che viene commentato da quel momento». Per Wiesel «lo spazio
tra due parole qualsiasi è più vasto della distanza tra la terra e il cielo».
C'è un detto polacco che esprime questo concetto: «Dal vacuo al vuoto». Sia
Kosinski sia Wiesel disseminarono generosamente le loro riflessioni di citazioni
da Albert Camus, il che rivela sempre un ciarlatano. Ricordando che Camus una
volta gli disse: «La invidio per Auschwitz», Wiesel glossa: «Camus non riusciva
a perdonarsi di non conoscere quell'evento maestoso, quel mistero dei misteri».
Wiesel, All Rivers, 321; Wiesel, Against Silence, II volume, 133. )
37.
Geoffrey Stokes ed Eliot Fremont-Smith, Jerzy Kosinski's Tainted Words, in
«Village Voice», 22 giugno 1982. John Corry,
A Case History: 17 Years of
Ideological Attack on a
Cultural
Target, in «New York Times», 7 novembre 1982. A suo credito, va detto che
Kosinski procedette a una sorta di conversione sul letto di morte. Nei pochi
anni che trascorsero dal suo smascheramento al suicidio, deplorò che
l'industria dell'Olocausto avesse escluso le vittime non ebree. «Molti ebrei
nordamericani tendono a percepire la Shoah come una tragedia esclusivamente
ebraica [...] Ma del genocidio furono vittime anche almeno la metà del popolo
Rom (ingiustamente chiamati zingari), circa due milioni e mezzo di cattolici
polacchi, milioni di cittadini sovietici e di altre nazionalità [...]» Kosinski
riconobbe inoltre il «coraggio dei polacchi» che gli «diedero asilo durante
l'Olocausto» nonostante il suo cosiddetto «aspetto semitico». Jerzy Kosinski, Passing By, New York 1992, 165-66,
178-79). A una conferenza sull'Olocausto, a chi gli domandava con rabbia che
cosa avessero fatto i polacchi per salvare gli ebrei rispose seccamente: «Che
cosa hanno fatto gli ebrei per salvare i polacchi?».
38. New
York 1996. Per il contesto della truffa Wilkomirski, si veda soprattutto Elena
Lappin, The Man With Two Heads, in
«Granta», n. 66, e Philip Gourevitch,
Stealing the Holocaust, in «New Yorker», 14 giugno 1999.
39. Un'altra
importante influenza «letteraria» su Wilkomirski fu quella di Wiesel. Si
confrontino i brani seguenti:
Wilkomirski: «Vidi i suoi occhi spalancati e
all'improvviso capii: quegli occhi sapevano tutto, avevano visto tutto ciò che
avevano visto i miei e sapevano infinitamente più di chiunque altro in questo
Paese. E io occhi così li conoscevo: li avevo visti migliaia di volte, al campo
e dopo. Erano gli occhi di Mila. Noi bambini ci dicevamo sempre tutto con
quegli occhi, e lei sapeva anche questo. Mi guardava dritto negli occhi e nel
cuore» (Fragments).
Wiesel: «Gli occhi, devo parlare dei loro occhi.
Devo cominciare da lì, perché i loro occhi vengono prima di tutto il resto, e
ogni cosa sta dentro quegli occhi. Il resto può aspettare. Mi limiterò a
confermare quello che già sai. Ma i loro occhi, il fuoco dei loro occhi, che
hanno dentro una specie di verità irriducibile che brucia e non si consuma.
Ridotto al silenzio di fronte a loro, puoi solamente chinare il capo e
accettare il giudizio. Ora il tuo solo desiderio è di vedere il mondo come lo
vedono loro. Sei un uomo fatto, saggio ed esperto, eppure improvvisamente ti
ritrovi impotente e spaventosamente debole. Quegli occhi ti ricordano la tua
fanciullezza, il tuo essere orfano, ti fanno perdere tutta la fiducia nel
potere del linguaggio. Quegli occhi negano il valore delle parole, eliminano la
necessità di ogni discorso». (The Jews of
silence, New York 1966, 1)
Wiesel. continua a cantare «gli occhi» per un'altra
pagina e mezza. La sua perizia letteraria è superata dalla sua maestria
dialettica. In un punto, ammette: «Diversamente da molti progressisti, credo
nella colpa collettiva». E in un altro: «Tengo a sottolineare che non credo
nella colpa collettiva». (Wiesel, Against
Silence, II volume, 134; Wiesel, And
the Sea, 152, 235.)
40. Bernd
Nauman, Auschwitz, New York 1966, 91.
Per una documentazione esauriente si veda FinkeIstein e Birn, Nation, 67-8.
41. Lappin,
49. Hilberg ha sempre posto le domande giuste. Da qui la sua condizione di
paria nella comunità che si occupa dell'Olocausto; si veda Hilberg, The Politics of Memory, passim.
42. Lappin.
43. Publisher Drops Holocaust Book, in «New
York Times», 3 novembre 1999. Allan Hall e Laura Williams, Holocaust Hoaxer? in «New York Post», 4 novembre 1999.
44. Novick, The Holocaust, 158. Segev, Seventh Million, 425. Wiesel, And the Sea, 198.
45. Bernard
Lewis, Semites and Anti-Semites, New
York 1986, capitolo 6; Bernard Lewis, The
Middle East, New York 1995, 348-50. Berenbaum, After Tragedy, 84.
46. «New
York Times», 27 marzo, 2 aprile, 3 aprile 1996. «Time», 23 dicembre 1996.
47. Nota
dell'AAARGH: non è vero: fu per un attimo lettore presso l'Università, ma è
stato licenziato da lungo tempo.
48. Yehuda
Bauer, Reflections Concerning Holocaust
History, in Louis Greenspan e
Graeme Nicholson (a cura di), Fackenheim, Toronto 1993, 164, 169. Yehuda Bauer, On Perpetrators of the Holocaust and the
Public Discourse, in «Jewish Quarterly Review», n. 87 (1997), 348-50.
Norman G. FinkeIstein e Yehuda Bauer,
Goldhagen's «Hitler's Willing Executioners»: An Exchange of Views, in
«jewish Quarterly Review», nn. 1-2 (1998), 126.
49. Per
i retroscena e gli sviluppi, si vedano Charles Glass, Hitler's (un)willing executioners, in «New Statesman», 23 gennaio
1998; Laura Shapiro, A Battle Over the
Holocaust, in «Newsweek», 23 marzo 1998; Tibor Krausz, The Goldhagen Wars, in «Jerusalem Report», 3 agosto 1998. Per
questa e altre questioni, cfr. www.NormanFinkelstein.com, con un link al sito
web di Goldhagen.
50. Daniel
Jonah Goldhagen, Daniel Jonah Goldhagen
Comments on Birn in «German Politics and Society», estate 1998, 88, 91 n2.
Daniel Jonah Goldhagen, The New Discourse
of Avoidance, n. 25 (www.Goldhagen.com/nda01.html).
51. Hoffmann
fu il relatore di Goldhagen per la dissertazione che divenne Hitler's Willing Executioners. Ciò
nonostante, commettendo una grave infrazione del protocollo accademico, non
soltanto scrisse un entusiastica recensione del libro di Goldhagen per «Foreign
Affairs», ma addirittura attaccò A Nation
on Trial come «scandaloso» in un secondo articolo per la medesima rivista
(«Foreign Affairs», maggio-giugno 1996 e luglio-agosto 1998). Maier mise in
rete un prolisso intervento sul sito tedesco www2.hnet.msu.edu. In definitiva,
gli unici «aspetti di questa situazione» che trovò «davvero spiacevoli e
censurabili» erano le critiche a Goldhagen. Perciò prestò «sostegno a un
ulteriore accertamento delle colpe» nell'azione legale di Goldhagen contro Birn
e accusò la mia argomentazione di essere una «speculazione fantasiosa ed
eccessivamente polemica» (23 novembre 1997).
52. New
York 1994. Lipstadt ricoprì la cattedra universitaria di storia dell'Olocausto
alla Emory University ed è stata recentemente chiamata allo United States
Holocaust Memorial Council.
53. Grazie
all'escamotage dell'uso di una doppia negazione, in pratica l'indagine
dell'American Jewish Committee favoriva la confusione: «Le sembra possibile o
impossibile che lo sterminio nazista degli ebrei non sia mai accaduto?» li
ventidue per cento degli intervistati rispose: «Possibile». In questionari
successivi, che riformulavano la domanda in termini più chiari, la negazione
dell'Olocausto era prossima a zero. Una recente indagine condotta dall'AJC in
undici Paesi ha rivelato che, nonostante le diffuse asserzioni di segno
contrario da parte dell'estrema destra, «poche persone negano l'Olocausto»
(Jennifer Golub e Renae Cohen, What Do
Americans Know About the Holocaust?, The American Jewish Committee 1993; Holocaust Deniers Unconvincing - Surveys,
in «Jerusalem Post», 4 febbraio 2000). Eppure, in un intervento congressuale
dedicato all'«antisemitismo in Europa», David Harris dell'AJC dava risalto alla
negazione dell'Olocausto nella destra europea senza far parola una sola volta
dei risultati dell'indagine dello stesso AJC secondo cui questa negazione non
trova praticamente alcuna eco presso l'opinione pubblica generale. (Audizioni
presso il Foreign Relations Committee, Senato degli Stati Uniti, 5 aprile 2000.
)
54. Si
vedano France Historian Over Armenian
Denial in «Boston Globe», 22 giugno 1995, e Bernard Lewis and the Armenians, in «Counterpunch», 16-31 dicembre
1997.
55. Israel
Charny, The Conference Crisis. The Turks,
Armenians and Jews, in The Book of
the International Conference on the Holocaust and Genocide. Book One. The
Conference Program and Crisis, Tel Aviv 1982. Israel Amrani, A Little Help for Friends, in «Haaretz»,
20 aprile 1990 (Bauer). Secondo la bizzarra versione di Wiesel, lui si ritirò
dalla presidenza della conferenza «per non offendere i nostri ospiti armeni».
Forse cercò di fare fallire la conferenza e fece pressioni sugli altri per una
questione di cortesia nei confronti degli armeni. Wiesel, And the Sea, 92. )
56. Edward
T.Linenthal, Preserving Memory, New
York l995, 228 e ss., 263, 312-13.
57. Lipstadt, Denying, 6, 12, 22, 89-90.
58. Wiesel, All Rivers, 333, 336.
59. Lipstadt, Denying, capitolo II.
60. A New Serbia, in «New Republic», 17
maggio 1999.
61. Si
vedano, per esempio, Meron Benvenisti,
Seeking Tragedy, in «Haaretz», 16 aprile 1999; Zeev Chafets, What Undergraduate Clinton Has Forgotten
in «Jerusalem Report», 10 maggio 1999; Gideon Levi, Kosovo: It Is Here, in «Haaretz», 4 aprile 1999. (Benvenisti
limita il paragone tra le azioni serbe e quelle compiute da Israele dopo il
maggio 1948. )
62. Arno
Mayer, Why Did the Heavens Not Darken?,
New York 1988. Christopher Hitchens,
Hitler's Ghost, in «Vanity Fair», giugno 1996 (Hilberg). Per un giudizio
equilibrato su Irving, si veda Gordon A. Craig, The Devil in the Details, in «New York Review of Books», 19
settembre 1996. Pur liquidando com'è giusto le asserzioni di Irving
sull'Olocausto nazista definendole «ottuse e infondate», Craig prosegue
affermando che «egli conosce il nazional-socialismo molto meglio della maggior
parte degli studiosi del suo stesso campo, e coloro che studiano il periodo
1933-1945 devono molto di più di quello che mai ammetteranno alla sua energia di
ricercatore e alla portata e al vigore delle sue pubblicazioni [...] Il suo
volume Hitler's War [...] resta il
miglior saggio che abbiamo sulla Seconda guerra mondiale vista dalla parte
tedesca e perciò è indispensabile a tutti coloro che si occupano di quel
conflitto [...] Persone come David Irving hanno quindi un ruolo fondamentale
nella ricerca storica e noi non dobbiamo ignorare il loro punto di vista».
63. Per
i tentativi falliti tra il 1984 e il 1994 di costruire un museo nazionale
afroamericano sul Washington
Mall, si veda Fath Davis Ruffins, Culture
Wars Won and Lost, Part II, The
National African-American Museum Project, in « Radical History
Review», inverno 1998. Un'iniziativa del Congresso fu alla
fine affossata dal senatore Jesse Helms del North Carolina. Il budget annuale
del Washington Holocaust Museum è di cinquanta milioni di dollari, trenta dei
quali provenienti dalle casse federali.
64. Per
il contesto, si vedano Linenthal,
Preserving Memory, Saidel, Never Too
Late, specialmente i capitoli 7 e 15; Tim Cole, Selling the Holocaust, New York 1999, capitolo 6.
65. Michael
Berenbaum, The World Must Know, New
York 1993, 2, 214. Omer Bartov, Murder in
Our Midst, Oxford 1996,180.
66. Per
i particolari, si veda Kati Marton, A
Death in Jerusalem, New York 1994, capitolo 9. Nelle sue memorie, Wiesel
rievoca il «passato leggendario di "terrorista"» dell'uccisore di
Bernadotte, Yehoshua Cohen. Si noti la parola terrorista virgolettata (Wiesel, And the Sea, 58). Il New York City
Holocaust Museum, per quanto non meno politicizzato (tanto il sindaco Ed Koch
quanto il governatore Mario Cuomo corteggiavano il voto e il denaro ebraico),
rientrò sin dall'inizio anche nei giochi di investitori e finanzieri ebrei
newyorkesi. A un certo punto, gli investitori cercarono di dare il minor
risalto possibile al termine «Olocausto» nel nome del museo per paura che
potesse far scendere il valore dell'adiacente complesso di appartamenti di
lusso. Wags suggerì con sarcasmo che avrebbero dovuto chiamare il complesso
«Treblinka Towers» e le strade vicine «Auschwitz Avenue» e «Birkenau
Boulevard». Il museo chiese un contributo a J. Peter Grace (nonostante fossero
stati rivelati i suoi legami con un criminale di guerra nazista) e organizzò
una festa di gala nella discoteca The Hot Rod: «La New York Holocaust Memorial
Commission invita la SV a ballare il rock and roll tutta la notte». (Saidel, Never Too Late, 8, 121, 132, 145, 158,
161, 191, 240).
67. Novick
la chiama la controversia dei «sei milioni» contro gli «undici milioni». A
cinque milioni assommano le morti di civili non ebrei, cifra dovuta al famoso
«cacciatore di nazisti» Simon Wiesenthal. Osservando che «non ha senso dal
punto di vista storico», Novick scrive: «Cinque milioni è un numero sia troppo
basso (per tutti i civili non ebrei uccisi dal Terzo Reich) sia troppo alto
(per i gruppi non ebraici che furono, come gli ebrei, un bersaglio designato)».
Si premura tuttavia di aggiungere che il punto ovviamente non sono i numeri di
per sé, ma ciò che noi intendiamo, ciò a cui facciamo riferimento quando
parliamo dell'Olocausto"». Stranamente, dopo questo ammonimento, Novick si
schiera a favore della commemorazione esclusivamente degli ebrei in quanto i
sei milioni «rappresentano qualcosa di specifico e determinato», mentre gli undici
milioni «sono un miscuglio inaccettabile». (Novick, The Holocaust, 214-26. )
68. Wiesel, Against Silence, III volume, 166.
69. Per
gli handicappati in quanto oggetto del primo genocidio nazista, si veda
soprattutto Henry Friedlander, The
Origins of Nazi Genocide, Chapel Hill, 1995. Secondo Leon Wieseltier, i non
ebrei morti ad Auschwitz «ebbero una morte pensata per gli ebrei [...], vittime
di una "soluzione" progettata per altri» (Leon Wieseltier, At Auschwitz Decency Dies Again, in
«New York Times», 3 settembre 1989). Eppure, come mostra un numero cospicuo di
studi, fu la morte inventata per gli handicappati tedeschi a essere inflitta
agli ebrei; oltre al saggio di FriedIander, si veda, per esempio, Michael
Burleigh, Death and Deliverance,
Cambridge 1994.
70. Sybil
Milton, autrice di numerose pubblicazioni sulla storia degli zingari ed ex
direttrice della sezione storia dello United States Holocaust Museum, afferma
che «durante l'Olocausto furono uccisi almeno duecentoventimila Rom e zingari
di origine tedesca» e che «tale cifra» va «incrementata, probabilmente a
cinquecentomila» (Statistical
Considerations, Sinti Mortality during the Holocaust, Roma, 24 dicembre
1999).
71. Friedlander, Origins: «Insieme agli ebrei, i nazisti
uccisero gli zingari d'Europa. Definiti come una razza «dalla pelle scura,
uomini, donne e bambini zingari non poterono sfuggire al loro destino di
vittime del genocidio nazista [...] Il regime nazista uccise con sistematicità
solamente tre gruppi umani: gli handicappati, gli ebrei e gli zingari» (XIIXIII).
Oltre che essere uno storico di prima grandezza, Friedlander è anche un ex
internato ad Auschwitz. Raul Hilberg, The
Destruction of European Jews, New York 198 5 (in tre volumi), III volume,
999-1000. Con la sincerità che lo contaddistingue, Wiesel nella sua
autobiografia proclama il suo disappunto per la mancata inclusione
nell'Holocaust Memorial Council, da lui presieduto, di un rappresentante degli
zingari. Come se lui non avesse avuto il potere di nominarne uno. (Wiesel, And the Sea, 211).
72. Linenthal, Preserving Memory, 241-46, 315.
73. Benché
l'«indinazione a favore degli ebrei» (Saidel) dell'Holocaust Museum di New York
fosse ancor più pronunciata (ai non ebrei vittime del nazismo fu annunciato sin
dall'inizio che era «solo per gli ebrei»), Yehuda Bauer andò su tutte le furie
quando la commissione accennò timidamende al fàtto che l'Olocausto potesse
abbracciare altre vittime oltre agli ebrei. «A meno che questa posizione non
cambi immediatamente e radicalmente» minacciò in una lettera ai membri della
commissione «non perderò occasione di [...] attaccare questo vergognoso
progetto da qualunque palco mi venga offerto.» (Saidel, Never Too Late, 125-26, 129, 212, 221, 224-25.)
74. ZOA Criticizes Holocaust Museum Hiring of
Professor Who Compared Israel to
Nazis, in
«Israel Wire», 5 giugno 1998. Neal M. Sher,
Sweep the Holocaust Museum
Clean, in
«Jewish World Review», 22 giugno 1998.
Scoundrel Time, in «PS - The
Intelligent Guide to Jewish Affairs», 21 agosto 1998.
Daniel Kurtzman, Holocaust
Museum Taps One
of Its Own for Top Spot, in «Jewish Telegraphic Agency», 5 marzo 1999. Ira
Stoll, Holocaust Museum Acknowledges a
Mistake, in «Forward», 13 agosto 1999.
75. Noam
Chomsky, World Orders Old and New,
New York 1996, 293-94 (Shavit).
CAPITOLO
3
LA DUPLICE ESTORSIONE
In origine, con il termine «sopravvissuto
all'Olocausto» si indicava chi aveva patito il terribile trauma dei ghetti
ebraici, dei campi di concentramento e dei campi di lavoro schiavistico, spesso
in questa sequenza. I sopravvissuti alla fine della guerra sono generalmente
stimati nell'ordine delle centomila persone (1); di queste, oggi saranno ancora
in vita non più del venticinque per cento. Dal momento che a coloro che avevano
subito l'esperienza dei campi veniva concessa la palma del martirio, molti
ebrei che trascorsero altrove il periodo della guerra e delle persecuzioni sì
presentarono come sopravvissuti. Dietro questa impostura stava anche un altro
valido motivo, di ordine materiale: il governo della Germania postbellica
pagava un risarcimento agli ebrei che erano stati nei ghetti o nei campi e
molti ebrei si costruirono un passato in grado di soddisfare tali requisiti
(2). «Se tutti quelli che pretendono di essere dei sopravvissuti lo fossero
dawero» inveiva mia madre «Hitler chi avrebbe ammazzato?»
[124] In effetti, molti studiosi hanno messo in
dubbio l'attendibilità delle testimonianze dei sopravvissuti. «Un'alta
percentuale di errori che ho scoperto nelle mie stesse opere» ricorda Hilberg
«potrebbe essere attribuita ai testimoni.» Anche chi lavora nell'industria
dell'Olocausto, come Deborah Lipstadt per esempio, osserva ironicamente come
spesso i sopravvissuti all'Olocausto sostengano di essere stati esaminati ad
Auschwitz da Josef Mengele in persona. (3)
A parte gli inganni della memoria, qualche
testimonianza di sopravvissuti all'Olocausto può essere considerata sospetta
per altre ragioni. Dal momento che oggi i sopravvissuti sono venerati come
santi laici, non si osa metterli in dubbio. Dichiarazioni assurde passano
incontestate. Nel suo acclamato libro di memorie, Elie Wiesel ricorda di avere
letto, appena liberato da Buchenwald, all'età di diciotto anni, «la Critica
della ragion pura», non ridete!, «in yiddish». A parte il fatto che lo stesso
Wiesel ammette di essere stato all'epoca «completamente a digiuno di grammatica
yiddish», resta comunque che la Critica
della ragion pura non fu mai tradotta in yiddish.
Narra anche, con dovizia di particolari, di un
«misterioso studioso del Talmud» che «in due settimane, solamente per stupirmi,
imparò a fondo l'ungherese». Dichiara a un settimanale ebraico di «diventare
spesso rauco o afono» quando legge mentalmente le proprie ope[125]re «ad alta
voce, interiormente». E a un giornalista del «New York Times», poi, racconta di
quando una volta fu investito da un taxi in Times Square: «Feci un volo di un
intero isolato. Fui investito tra la Quarantacinquesima Strada e Broadway e
l'ambulanza mi raccolse alla Quaranta-quattresima». «La verità che presento è
nuda e cruda» sospira Wiesel. «Non potrei fare altrimenti» (4).
In anni recenti, l'espressione
«sopravvissuto all'Olocausto» ha assunto un nuovo, più ampio significato:
designa non soltanto chi ha sofferto nei campi, ma anche chi è riuscito a
sfuggire ai nazisti; così, nella categoria rientrano, per esempio, gli oltre centomila
ebrei polacchi che dopo l'invasione tedesca della Polonia trovarono rifugio in
Unione Sovietica. Eppure, osserva lo storico Leonard Dinnerstein, «quelli che
si erano sistemati in Unione Sovietica non vennero trattati in modo diverso dai
cittadini russi» mentre «i sopravvissuti al campi di concentramento sembravano
dei morti viventi» (5). Qualcuno ha scritto a un sito web sull'Olocausto per
sostenere che, nonostante sia vissuto a Tel
Aviv durante la guerra, anche lui è un sopravvissuto
all'Olocausto: sua nonna è morta ad Auschwitz. A sentire Israel Gutman,
Wilkomirski è un sopravvissuto all'Olocausto perché il suo «dolore è
autentico». L'ufficio del rex Primo ministro israeliano Netanyahu ha
recentemente calcolato il numero di sopravvissuti all'Olocausto tuttora in vita
in circa un milione. Ancora una volta, il motivo principale di [126] questo
gioco al rialzo sul numero dei superstiti non è difficile da capire: è
difficile sostenere nuove e imponenti richieste di risarcimento quando sono
ancora in vita solo pochi sopravvissuti. Infatti, i principali complici di
Wilkomirski erano, in un modo o nell'altro, inseriti nel network dei
risarcimenti per l'Olocausto. La sua amica infanzia ad Auschwitz, la «piccola
Laura», attinse soldi da un fondo svizzero per l'Olocausto, quando in realtà
era di nascita americana, e per giunta un'adepta di culti satanici. I
principali sponsor israeliani di Wilkomirski erano sovvenzionati da (o attivi
in) organizzazioni coinvolte nei risarcimenti per l'Olocausto (6).
La questione dei risarcimenti risulta
particolarmente illuminante per comprendere l'industria dell'Olocausto. Come
abbiamo visto, allineandosi alle posizioni degli Stati Uniti durante la Guerra
Fredda, la Germania venne in gran fretta riabilitata e l'Olocausto nazista
cadde nel dimenticatoio. Ciò nonostante, nei primi anni Cinquanta, la Germania
entrò in trattativa con le istituzioni ebraiche e firmò accordi di
risarcimento. Dietro poche (o nessuna) pressioni esterne, ha pagato finora
qualcosa come sessanta miliardi di dollari.
Facciamo un confronto con il caso
americano. Le guerre statunitensi in Indocina hanno mietuto tra i quattro e i
cinque milioni di vite tra uomini, donne e bambini. Uno storico ricorda che,
dopo il ritiro americano, il Vietnam aveva disperatamente bisogno di
aiu[127]to. «Nel Sud, novemila dei quindicimila villaggi, oltre dieci milioni
di ettari di suolo coltivabile e quasi cinque milioni di ettari di foresta
erano stati distrutti; un milione e mezzo di animali da allevamento erano stati
abbattuti; le stime parlavano di duecentomila prostitute,
ottocentosettantanovemila orfani, centottantunomila disabili e un milione di
vedove. Tutte le sei città industriali del Nord erano state gravemente
danneggiate, così come i centri minori e quattromila delle cinquemilaottocento
comuni agricole.» Rifiutandosi, comunque, di rifondere i danni, il presidente
Carter spiegò che
«la distruzione era [stata] reciproca». Nel dichiarare
che non vedeva certo la necessità di
«alcun tipo di scuse per la guerra» il segretario alla Difesa
del presidente Clinton, William Cohen, ha svolto considerazioni analoghe:
«Entrambi i Paesi ne sono stati segnati. Loro hanno le loro ferite, noi
certamente abbiamo le nostre» (7).
Il governo tedesco cercò di risarcire gli ebrei attraverso
tre diversi accordi siglati nel
1952. I singoli che ne avevano fatto richiesta furono
risarciti secondo i termini del
Bundesentschädigungsgesetz, la legge d'indennizzo
federale: un accordo separato con Israele prevedeva sussidi per la
reintegrazione e la riabilitazione di diverse centinaia di migliaia di ebrei
rifugiati. Contemporaneamente, il governo tedesco negoziò anche un accordo
finanziario con la Conference on Jewish Material Claims Against Germany, che
comprendeva tutte [128] le maggiori organizzazioni ebraiche, tra le quali
l'American Jewish Committee, l'American Jewish Congress, Bnai Brith, il Joint
Distribution Committee e così via. La Claims Conference avrebbe dovuto
utilizzare il denaro (dieci milioni di dollari l'anno per dodici anni, in
valuta attuale pari a circa un miliardo di dollari) in favore degli ebrei
vittime delle persecuzioni naziste che per qualche motivo erano stati poco o
per nulla risarciti (8). Mia madre era uno di questi casi. Sopravvissuta al
ghetto di Varsavia, al campo di concentramento di Majdanek e ai campi di lavoro
di Czestochowa e Skarszysko-Kamiena, ricevette dal governo tedesco un
indennizzo di soli tremilacinquecento dollari. Altri ebrei vittime (e molti di
loro in realtà non lo erano affatto) ottennero invece dalla Germania pensioni a
vita per un valore complessivo di centinaia di migliaia di dollari a testa. Il
denaro dato alla Claims Conference era stato stanziato a favore di quegli ebrei
vittime dei campi che avevano ricevuto solamente un risarcimento minimo.
In effetti, il governo tedesco tentò di rendere
esplicito nell'accordo che il denaro sarebbe stato destinato esclusivamente
agli ebrei sopravvissuti, in senso stretto, che erano stati compensati
iniquamente o inadeguatamente dai tribunali tedeschi. La Claims Conference
disse di sentirsi offesa del fatto che si dubitasse della sua buona fede.
Quando l'intesa fu raggiunta, fece pubblicare un comunicato stampa nel quale si
sottoli[129]neava che il denaro sarebbe stato usato per «gli ebrei perseguitati
dal regime nazista ai quali la legislazione esistente non poteva fornire una
riparazione». raccordo finale impegnava la Claims Conference a impiegare il denaro
«per soccorrere, riabilitare e garantire una nuova sistemazione alle vittime».
La Claims Conference annullò prontamente l'intesa.
In flagrante violazione della lettera e dello spirito dell'accordo, destinò i
soldi non alla riabilitazione delle singole vittime, quanto piuttosto a quella
delle comunità ebraiche. Anzi, un
principio-guida della Claims Conference proibiva l'uso di denaro a «beneficio
diretto di singole persone». Fornendo un classico esempio di attenzione ai
propri interessi, comunque, la Claims Conference fece eccezione per due
categorie di vittime: rabbini e «leader ebrei di primo piano» ricevettero
pagamenti individuali. Le organizzazioni che facevano parte della Claims
Conference usarono quella massa di denaro per finanziare i loro vari progetti.
Qualunque beneficio (Sempre che ve ne siano stati) abbiano ricevuto gli ebrei
realmente classificabili come vittime, fu indiretto o casuale (9). Attraverso
giri tortuosi, grosse somme furono dirette alle comunità ebraiche nel mondo
arabo e si facilitò l'emigrazione dall'Europa dell'Est (10). Si finanziarono
anche iniziative culturali come musei dell'Olocausto e cattedre universitarie
di studi sull'Olocausto; con un'iniziativa puramente propagandistica, [130]
poi, lo Yad Vashem istituì un riconoscimento a favore dei «gentili giusti».
Più recentemente, la Claims Conference cercò di
entrare in possesso delle proprietà ebraiche denazionalizzate nell'ex Germania
Orientale, che valgono centinaia di milioni di dollari e che appartengono di
diritto agli attuali eredi degli ebrei a cui vennero tolte. Quando la Claims
Conference, per questo e per altri abusi, venne attaccata dagli ebrei
defraudati, il rabbino Arthur Hertzberg fiagellò entrambe le parti osservando
sarcasticamente che «non si tratta[va] di giustizia: è una contesa per
questioni di soldi» (11). Quando la Germania o la Svizzera si rifiutano di
pagare risarcimenti, si leva incontenibile la giusta protesta della comunità
ebraica americana, ma quando le élite ebraiche derubano gli ebreì sopravvissuti,
non si solleva alcuna questione etica: sì tratta solo di soldi.
Benché mia madre avesse ricevuto
solamente tremilacinquecento dollari a titolo di risarcimento, altre persone
coinvolte nei processi di indennizzo se la sono cavata molto meglio. Lo
stipendio annuale documentato di Saul Kagan, per lungo tempo segretario
generale della Claims Conference, è di centocinquemila dollari. Durante la sua
gestione, fu incriminato per trentatré casi di assegnazione indebita di fondi e
crediti, di cui si rese colpevole, in malafede, mentre era alla guida di una
banca newyorkese. (La sentenza di condanna fu ribalta[131]ta solamente dopo
numerosi appelli.) Alfonse D'Amato, l'ex senatore di New York, fece da
mediatore nell'azione legale contro le banche tedesche e austriache per
trecentocinquanta dollari l'ora più le spese; per i primi sei mesi di lavoro
incassò centotremila dollari. Wiesel. si affrettò a ricoprire pubblicamente di
lodi D'Amato per la sua «sensibilità alla sofferenza degli ebrei». Lawrence
Eagleburger, segretario di Stato sotto il presidente Bush senior, percepisce
uno stipendio annuale di trecentomila dollari in quanto presidente della
International Commission On Holocaust-Era Insurance
Claims. «Qualunque cifra gli diano» ha sostenuto Elan
Steinberg del Congresso Mondiale
Ebraico «è un vero affare.» Kagan incassa in dodici
giorni, Eagleburger in quattro e D'Amato in dieci ore quello che mia madre ha
ricevuto per avere patito sei anni di persecuzioni naziste (12).
Il premio per il più intraprendente venditore
dell'Olocausto, comunque, spetta sicuramente a Kenneth Bialkin. Per decenni uno
dei principali leader ebrei americani, guidò l'ADL, e presiedette la Conferenza
dei presidenti delle maggiori organizzazioni ebraiche americane. Attualmente,
Bialkin rappresenta le Assicurazioni Generali contro la commissione Eagleburger
per, si dice, una «grossa somma di denaro» (13).
Negli ultimi anni, l'industria dell'Olocausto è
diventata un vero e proprio racket di estorsioni. Dando a in[132]tendere di
rappresentare tutto il mondo ebraico, i vivi come i morti, essa sta avanzando
pretese in tutta Europa sui beni degli ebrei dell'Olocausto. Giustamente
battezzata «l'ultimo capitolo dell'Olocausto», questa duplice estorsione,
rivolta sia contro i Paesi europei sia
contro gli ebrei legittimi beneficiari, ha dapprima preso di mira la
Svizzera.
In primo luogo, esaminerò le dichiarazioni contro
questo Paese, poi passerò alle prove, dimostrando come molti degli addebiti non
soltanto si fondino su dichiarazioni fraudolente, ma si addicano molto meglio a
coloro che li hanno mossi che al loro bersaglio.
Durante le commemorazioni del cinquantesimo
anniversario della fine della Seconda guerra mondiale, nel maggio 1995, il
presidente svizzero presentò le scuse formali della sua nazione per avere
negato rifugio agli ebrei durante l'Olocausto nazista (14). Allo stesso tempo
si riaprì la discussione sull'antica questione dei beni degli ebrei in deposito
presso conti svizzeri prima e durante la guerra. In un reportage che ebbe vasta
eco, un giornalista israeliano citò un documento (mal interpretandolo, come
risultò in seguito) che provava che le banche svizzere gestivano ancora conti
di ebrei risalenti al periodo dell'Olocausto, per un valore di diversi miliardi
di dollari (15).
Il Congresso Mondiale Ebraico, un'organizzazione
moribonda fino alla sua campagna di denuncia di Kurt Waldheim come criminale di
guerra, colse questa nuo[133]va occasione per mostrare i muscoli. Da subito
risultò chiaro che la Svizzera era una facile preda: pochi si sarebbero
schierati a fianco dei ricchi banchieri svizzeri contro le «vittime bisognose
dell'Olocausto», ma, cosa ancora più importante, le banche svizzere erano
altamente vulnerabili alle pressioni economiche provenienti dagli Stati Uniti
(16).
Verso la fine dei 1995, Edgar Bronfman, presidente
del Congresso Mondiale Ebraico e figlio di un funzionario della Jewish Claims
Conference, e il rabbino Israel Singer, segretario generale del Congresso
Mondiale Ebraico e magnate immobiliare, si incontrarono con i banchieri
svizzeri (17). Bronfman, erede della fortuna dell'azienda di liquori Seagram
(il suo patrimonio personale è stimato in tre miliardi di dollari), avrebbe poi
fatto modestamente sapere alla commissione sulle attività bancarie del Senato
che lui parlava «a nome del popolo ebraico» come pure dei «sei milioni di
persone che non possono parlare per se stesse» (18). Le banche svizzere
dichiararono di essere riuscite a individuare solamente
settecentosettantacinque conti inattivi giacenti, per un valore totale di
trentadue milioni di dollari. Offrirono questa cifra come base per i negoziati
con il Congresso Mondiale Ebraico, il quale la rifiutò in quanto inadeguata.
Nel dicembre 1995, Bronfman lavorò in squadra con il senatore D'Amato. Con i
sondaggi elettorali che lo davano in netto svantaggio e una [134] corsa per il
Senato all'orizzonte, D'Amato vide l'occasione di migliorare nettamente la
propria immagine agli occhi della comunità ebraica, con il suo forte peso
elettorale e i suoi munifici finanziamenti. Prima di riuscire a mettere
definitivamente in ginocchio la Svizzera, il CME, lavorando con l'intero
ventaglio delle istituzioni che si occupano dell'Olocausto (ivi inclusi lo US
Holocaust Memorial Museum e il Centro Simon Wiesenthal), aveva mobilitato
l'intero establishment politico americano. A partire dal presidente Clinton,
che sotterrò l'ascia di guerra con D'Amato (le udienze del caso Whitewater
erano ancora in corso) per fornire il proprio appoggio, passando per undici
agenzie del governo federale, come anche la Camera e il Senato, fino ai governi
dei vari Stati e alle amministrazioni locali in tutto il Paese, da ogni parte
venne montata una campagna di pressioni che spinse una sfilza di funzionari
pubblici a denunciare il comportamento dei perfidi svizzeri.
Usando come trampolino le commissioni sulle attività
bancarie di Camera e Senato, l'industria dell'Olocausto orchestrò una indegna
campagna diffamatoria. Grazie all'aiuto di una stampa credulona e infinitamente
compiacente, pronta a concedere titoli a nove colonne a qualunque storia, per
quanto ridicola, avesse una relazione con l'Olocausto, la campagna denigratoria
risultò inarrestabile. Gregg Rickman, primo [135] assistente lesrale di
D'Amato, nella sua ricostruzione si vanta del fatto che i banchieri svizzeri
furono portati a forza «nell'aula dell'opinione pubblica, dove stabilivamo noi
l'ordine del giorno. I banchieri erano nel nostro territorio e noi eravamo,
secondo le convenienze, il giudice, la giuria e il boia». Tom Bower,
ricercatore di punta nella campagna antisvizzera, definisce la richiesta di
un'udienza da parte di D'Amato un «eufemismo per indicare un processo pubblico
o un tribunale illegale» (19).
Il «portavoce» della valanga antisvizzera fu il
direttore generale del Congresso Mondiale Ebraico, Elan Steinberg, la cui
funzione principale fu quella di dispensare disinformazione. «Il terrore
attraverso lo scandalo» a quanto dice Bower «era l'arma preferita di Steinberg,
perché sparava una serie d'accuse allo scopo di creare disagio e di scioccare.
I rapporti dell'OSS [Office of Strategic Services, un ramo dei servizi segreti
americani durante la Seconda guerra mondiale], che spesso si basavano su
dicerie e su fonti non controllate e guardate per anni con sospetto dagli
storici in quanto voci non comprovate, d'improvviso e senza alcun vaglio
critico assumevano credibilità ottenendo vasta eco.» «L'ultima cosa di cui le
banche hanno bisogno è una pubblicità negativa» spiegò il rabbino Singer. «E
noi gliela faremo fino a quando le banche diranno: "Basta. Scendiamo a
patti".» Ansioso di godere a sua [136] volta delle luci della ribalta, il
rabbino Marvin Hier, responsabile del Centro Simon Wiesenthal, fece una
dichiarazione spettacolare: la Svizzera aveva imprigionato i rifugiati ebrei in
«campi di lavoro schiavistico». (Con moglie e figlio sul libro paga, Hier
dirige il Centro Simon Wiesenthal come un'azienda di famiglia: insieme, nel
1992 hanno racimolato uno stipendio di cinquecentoventimila dollari. Il Centro
è rinomato per le sue mostre sull'Olocausto «alla Disneyland» e per «l'uso
vincente di tattiche di terrore sensazionalistico per raccogliere fondi».)
«Vedendo l'infinito miscuglio di verità e supposizioni, di fatti e invenzioni
messo in piedi dai media» conclude Itamar Levin «è facile capire come mai molti
svizzeri credono che il loro Paese sia stato vittima di un qualche complotto
internazionale. (20)»
La campagna degenerò rapidamente in una diffamazione
del popolo svizzero. In uno studio sponsorizzato dall'ufficio di D'Amato e dal
Centro Simon Wiesenthai, Bower scrive per esempio che «una nazione i cui
abitanti [...] si vantavano con i loro vicini della propria invidiabile
ricchezza trasse coscientemente profitto da denaro sporco di sangue»; che «i
cittadini apparentemente rispettabili del Paese più pacifico del mondo [...]
commisero un furto senza precedenti»; che «la disonestà era un connotato culturale
che gli svizzeri avevano assimilato a fondo per proteggere l'immagine della
nazione e la sua prosperità; che gli svizzeri erano «istinti[137]vamente
attratti dal profitto» (solamente gli svizzeri?); che «gli interessi privati
erano l'unico scopo di tutte le banche svizzere» (Solamente di quelle
svizzere?); che «la piccola consorteria di banchieri svizzeri era diventata la
più avìda e la più immorale»; che «la diplomazia svizzera praticava le arti
della dissimulazione e dell'inganno» (solamente la diplomazia svizzera?); che
«le scuse e le dimissioni non erano una pratica diffisa nella tradizione
politica svizzera» (e da noi?); che «la cupidigia svizzera era senza pari»; che
«il carattere svizzero» era una combinazione di «semplicità e doppiezza» e che
«dietro la facciata di civiltà c'era uno strato di ostinazione, che celava una
granitica ed egoistica mancanza di comprensione per le opinioni di chiunque
altro»; che gli svizzeri non erano «Semplicemente un popolo particolarmente
privo di fascino che non aveva prodotto artisti, né eroi dall'epoca di
Guglielmo Tell, né statisti, ma erano stati collaboratori disonesti dei nazisti
e avevano tratto profitto dal genocidio» e via dicendo. Rickman sottolinea
questa «verità più profonda» riguardo agli svizzeri: «Giù nel profondo,
probabilmente più nel profondo di quanto loro stessi pensassero, conservavano
nel loro temperamento un'arroganza latente nei confronti degli altri. Pur con
tutti i loro sforzi, non riuscivano a nascondere la loro educazìone» (21).
Molti di questi insulti sono terribilmente simili a quelli che gli antisemiti
lanciano contro gli ebrei.
[138] L'accusa principale era che c'era stata, come
recita il sottotitolo del libro scritto da Bower, «una cospirazione
elvetico-nazista durata cinquant'anni per sottrarre miliardi agli ebrei europei
e ai sopravvissuti all'Olocausto». Per citare il mantra del racket della
restituzione dei beni dell'Olocausto, questa cospirazione costituì «il più
grande ladrocinio nella storia dell'umanità»; per l'industria dell'Olocausto
tutto ciò che riguarda gli ebrei appartiene a una categoria separata e
superlativa: il peggiore, il più grande
Come prima cosa, l'industria dell'Olocausto dichiarò
che le banche svizzere avevano sistematicamente negato agli eredi delle vittime
dell'Olocausto l'accesso a conti inattivi su cui giacevano tra i sette e i
venti miliardi di dollari. «Nel corso degli ultimi cinquant'anni», riportò
«Time» in una storia di copertina, un «ordine permanente» delle banche svizzere
«è stato quello di essere evasivi e di fare ostruzionismo quando sopravvissuti
all'Olocausto fanno domande circa i conti correnti dei loro parenti deceduti.»
Ricordando le regole di segretezza attuate dalle banche svizzere nel 1934, in
parte per prevenire un ricatto nazista nei confronti di titolari di conto
ebrei, D'Amato sentenziò di fronte alla commissione sulle attività bancarie
della Camera: «Non è un'ironia il fatto che lo stesso sistema che aveva
incoraggiato la gente a venire ad aprire conti usi poi la segretezza per negare
a quelle stesse persone e [139] ai loro credi ciò che loro spetta di diritto?
Era una logica perversa, distorta, alterata».
Bower racconta concitatamente la scoperta di una
prova-chiave per dimostrare la perfidia degli svizzeri nei confronti delle
vittime dell'Olocausto: «La fortuna e la scrupolosità ci fornirono un frammento
che confermò la validità delle accuse di Bronfman. Un rapporto dalla Svizzera
dei servizi segreti, datato luglio 1945, affermava che Jacques Salmanovitz,
titolare della Société Générale de Surveillance (una società di procura e
fiduciaria con sede a Ginevra, operante anche sui mercati balcanici), era in
possesso di un elenco di centottantadue clienti ebrei che avevano affidato otto
milioni e quattrocentomila franchi svizzeri e circa novantamila dollari alla
società in attesa del loro ritorno dai Balcani. Il rapporto aggiungeva che gli
ebrei non avevano ancora reclamato i loro averi. Rickman e D'Amato erano al
settimo cielo». Anche Rickman, nella sua ricostruzione, brandisce questa «prova
della criminalità della Svizzera», ma nessuno dei due, comunque, fa menzione in
questo contesto specifico del fatto che Salmanovitz fosse ebreo. (L'effettiva
validità di queste accuse verrà discussa più avanti.) (22)
Alla fine del 1996 una teoria di
anziane signore ebree e un uomo rilasciarono commoventi testimonianze di fronte
alle commissioni sulle attività bancarie del Congresso sulle prevaricazioni dei
banchieri svizze[140]ri. Ciò nonostante, secondo
Itamar Levin, direttore del maggiore quotidiano
economico israeliano, praticamente nessuno di questi testimoni «era in possesso
di prove effettive circa l'esistenza di beni depositati presso banche
svizzere». Per rafforzare l'effetto teatrale di queste deposizioni, D'Amato
portò sul banco dei testimoni Elie Wiesel che, nelle sue dichiarazioni poi
ampiamente riportate, espresse indignazione (indignazione!) nello scoprire che
chi aveva perpetrato l'Olocausto aveva cercato di derubare gli ebrei prima di
ammazzarli: «All'inizio credevamo che la Soluzione Finale avesse come unica
motivazione un'ideologia perversa. Ora veniamo a sapere che non volevano
semplicemente uccidere gli ebrei, per quanto orribile possa suonare, ma
volevano anche derubarli. Ogni giorno impariamo qualcosa di più su questa
tragedia. Non esiste un limite alla sofferenza? Un limite all'oltraggio?».
Ovviamente, è difficile definire il saccheggio nazista dei beni degli ebrei
come una novità: gran parte dei saggio di Raul Hilberg, The Destruction of tbe European Jews, pubblicato nel 1961, è
dedicato alle espropriazioni messe in atto dai nazisti contro gli ebrei (23).
Si è anche affermato che i banchieri svizzeri hanno
rubato i depositi delle vittime dell'Olocausto e distrutto sistematicamente
documenti d'importanza vitale per coprire le loro tracce e che solamente agli
ebrei sia toccato un simile abominio. Nel corso di un'udienza, [141] attaccando
violentemente la Svizzera, la senatrice Barbara Boxer dichiarò: «Questa
commissione non tollererà un atteggiamento ipocrita da parte delle banche
svizzere. Non andate a raccontare che cercate le prove, quando le state
distruggendo» (24).
Ahimè, il «valore di propaganda» (Bower) dei vecchi
ebrei che chiedevano risarcimenti, rendendosi testimonì della perfidia degli
svizzeri, si esauri velocemente: l'industria dell'Olocausto dovette allora
cercare un altro capo d'accusa. La frenesia dei media si era fissata
sull'acquisto, da parte della Svizzera, dell'oro che i nazisti avevano rapinato
dalle tesorerie centrali dei Paesi europei durante la guerra. Per quanto spacciate
come rivelazioni sensazionali, si trattava in effetti di notizie risapute.
Arthur Smith, autore dello studio di riferimento sulla questione, dichiarò
all'udienza alla Camera dei rappresentanti: «Per tutta la mattina e il
pomeriggio ho ascoltato un elenco di fatti che, in gran parte, in linea
generale, erano noti da anni; e mi sorprende che molti di essi vengano
presentati come nuovi e sensazionali». L'obiettivo delle udienze non era
comunque quello di informare ma, secondo quanto disse la giornalista Isabel
Vincent, di «inventare storie sensazionalistiche». Se si fosse gettato fango a
sufficienza, era ragionevole pensare che la Svizzera avrebbe gettato la spugna
(25).
L'unica vera nuova accusa era che la Svizzera aveva
consapevolmente trafficato con l'«oro dei campi» e cioè [142] che aveva
comprato grossi quantitativi di oro che i nazisti avevano strappato alle
vittime dei campi di concentramento e di sterminio e poi fuso in lingotti.
Bower riferisce che il Congresso Mondiale Ebraico «aveva bisogno di un legame
emotivo per associare la Svizzera all'Olocausto» e questa nuova rivelazione
della perfidia svizzera venne di conseguenza considerata un dono del Cielo.
«Poche immagini» prosegue Bower «suscitavano più emozione delle metodiche
operazioni di estrazione dei denti d'oro dalle bocche dei cadaveri recuperati
dalle camere a gas.» «Si tratta di fatti davvero molto angoscianti» intonò con
aria triste D'Amato a un'udienza alla Camera dei rappresentanti «perché tali
sono la sottrazione e il furto di beni dalle case, dalle banche nazionali, dai
campi di sterminio, di orologi d'oro, di braccialetti, di montature di occhiali
e di denti dalle bocche delle persone. (26)»
Oltre che di avere bloccato l'accesso ai conti
dell'Olocausto e di avere acquistato oro rubato. la Svizzera venne anche
accusata di avere complottato con la Polonia e l'Ungheria per defraudare gli
ebrei, perché aveva usato come compensazione per le proprietà elvetiche
nazionalizzate da quei governi il denaro depositato presso conti svizzeri inattivi
intestati a cittadini polacchi e ungheresi (in gran parte, ma non tutti,
ebrei). Rickman considera tutto ciò una «rivelazione talmente sensazionale da
mandare la Svizzera al tappeto e da sol[143]levare una tempesta», ma questi
fatti erano già ampiamente noti e riportati sulle riviste americane di
giurisprudenza agli inizi degli anni Cinquanta e, con tutto lo strombazzamento
dei mezzi di comunicazione, la cifra complessiva finale non raggiungeva il
milione di dollari in valuta corrente (27).
Già prima dell'udienza inaugurale al Senato sui
conti inattivi, nell'aprile 1996, le banche svizzere si erano accordate per
istituire una commissione investigativa e avevano accettato di attenersi alle
indicazioni di questa. Formata da sei membri (tre della World Jewish
Restitution Organization e tre dell'Unione delle banche svizzere) e guidata da
Paul Volcker, ex presidente della US Federal Reserve Bank, la «commissione
indipendente di personalità illustri» venne istituita formalmente con un
«Memorandurn d'intesa» del maggio 1996. Oltre a ciò, il governo svizzero nel
dicembre dello stesso anno nominò una «commissione indipendente di esperti»
presieduta dal professor Jean-Frangois Bergier e della quale faceva parte un
famoso studioso dell'Olocausto, l'israeliano Saul Friedlander; la commissione
avrebbe svolto indagini sul commercio di oro tra Svizzera e Germania durante la
Seconda guerra mondiale.
Comunque, ancor prima che questi organismi si
mettessero al lavoro, l'industria dell'Olocausto fece pressioni per trovare un
accordo finanziario con la Svizzera, la quale protestò che qualunque accordo
avrebbe [144] dovuto naturalmente attendere le risultanze della commissione,
altrimenti avrebbe costituito «un'estorsione e un ricatto». Giocando il solito
asso nella manica, il Congresso Mondiale Ebraico si mostrò angosciato dalle
condizioni in cui versavano le «vittime bisognose dell'Olocausto». «Il mio
problema è il tempo» disse Bronfman alla commissione sulle attività bancarie
della Camera «e ci sono molti sopravvissuti all'Olocausto per cui sono
preoccupato.» Viene da chiedersi come mai l'angosciato miliardario non potesse
personalmente porre temporaneo rimedio a questa situazione. Rifiutando una
proposta di accordo per duecentocinquanta milioni di dollari da parte della Svizzera,
Bronfman singhiozzò: «Non fate favori. Metterò i soldi io stesso». Non lo fece.
La Svizzera, comunque, nel febbraio 1997 si accordò per stabilire un «Fondo
speciale per le vittime bisognose dell'Olocausto» del valore di duecento
milioni di dollari per aiutare a tirare avanti quelle «persone che necessitano
in particolar modo di aiuto o di sostegno» fino a quando le commissioni
avessero terminato i lavori. (il fondo aveva ancora liquidità disponibile
quando le commissioni Bergier e Volcker pubblicarono i loro rapporti.) Le
pressioni dell'industria dell'Olocausto per un accordo finale, comunque, non
diminuirono, ma piuttosto si fecero sempre più pressanti. Le rinnovate
richieste della Svizzera che per arrivare a un accordo si sarebbero dovute
attendere le conclu[145]sioni delle commissioni (dopo tutto, era stato il
Congresso Mondiale Ebraico a chiedere in origine questo risarcimento morale)
restarono inascoltate. Di fatto, da queste conclusioni l'industria
dell'Olocausto aveva soltanto da perdere: se alla fine si fossero dimostrate
legittime poche richieste di risarcimento, la causa contro le banche svizzere
avrebbe perso credibilità; e se quelli che richiedevano legittimamente un
risarcimento fossero stati identificati, la Svizzera sarebbe stata costretta a
pagare solo loro, anche se numerosi, ma non le organizzazioni ebraiche. Un
altro mantra dell'industria dell'Olocausto era che quel risarcimento «non è
questione di soldi, ma di verità e giustizia». «Non è questione di soldi» fu
l'ironica risposta degli svizzeri: «È questione di più soldi» (28).
Oltre a fomentare l'isteria collettiva, l'industria
dell'Olocausto coordinò una strategia a due livelli per «costringere con il
terrore» (l'espressione è di Bower) la Svizzera a cedere: class actions (29) e boicotaggio economico. La prima class action fu intentata agli inizi
dell'ottobre 1996 da Edward Fagan e Robert Swift per conto di Gizella Weisshaus
(prima che morisse ad Auschwitz, suo padre aveva parlato di un proprio conto in
Svizze[146]ra, ma dopo la guerra le banche respinsero le sue richieste) e
«altri che si trovano in posizione analoga» per venti miliardi di dollari.
Poche settimane più tardi, il Centro Simon Wiesenthal, rivolgendosi agli
avvocati Michael Hausfeld e Melvyn Weiss, intentò una seconda class action e, nel gennaio 1997, il
Consiglio mondiale delle comunità ebraiche ortodosse ne promosse una terza.
Tutti e tre i procedimenti furono intentati presso il giudice Edward Korman,
della corte distrettuale di Brooklyn, il quale li unificò. Almeno una delle
parti della causa, l'avvocato di Toronto Sergio Karas, deplorò questa tattica:
«Le class actions non hanno fatto
altro che provocare isteria di massa e violenti attacchi alla Svizzera. Esse
non fanno che perpetuare il mito degli avvocati ebrei che pensano solamente ai
soldi». Paul Volcker si espresse contro le
class actions sulla base del fatto che esse «danneggeranno il nostro
lavoro, potenzialmente fino al punto di vanificarlo»: ma per l'industria
dell'Olocausto questa era una preoccupazione irrilevante, se non un ulteriore
incentivo (30).
Tuttavia, l'arma principale per spezzare la
resistenza svizzera fu il boicottaggio economico. «Adesso il gioco si farà più
sporco» avverti nel gennaio 1997 Abraham Burg, presidente dell'Agenzia ebraica
e uomo di riferimento d'Israele nel caso delle banche svizzere. «Fino a ora
abbiamo tenuto a freno la pressione ebraica internazionale.» Il Congresso
Mondiale Ebraico aveva co[147]minciato a progettare il boicottaggio già nel
gennaio 1996. Bronfman e Singer contattarono il revisore dei conti del comune
di New York, Alan Hevesi (il cui padre era stato un importante funzionario
dell'AJC) e quello dello Stato di New York, Carl Mc Call. Tra tutti e due,
gestivano investimenti per miliardi di dollari in fondi pensione; Hevesi era
anche presidente della US Comptrollers Association, che investiva trentamila
miliardi di dollari in fondi pensione. Alla fine di gennaio, al matrimonio di
sua figlia, Singer si incontrò con D'Amato e con Bronfman per mettere a punto
la strategia. «Guardate che razza di uomo sono» scherzò Singer: «Faccio affari
alle nozze di mia figlia» (31).
Nel febbraio 1996, Hevesi e Mc Call scrissero alle banche
svizzere minacciando sanzioni. In ottobre, il governatore Pataki diede
pubblicamente il suo appoggio. Nei mesi successivi, le amministrazioni locali e
governative a New York, nel New Jersey, nel Rhode Island e nell'Illinois
stabilirono tutte risoluzioni che minacciavano il boicottaggio economico a meno
che le banche svizzere ammettessero le loro colpe. Nel maggio 1997, il comune
di Los Angeles, con il ritiro di milioni di dollari in fondi pensione da una
banca svizzera, impose le prime sanzioni. Hevesi si affrettò a seguirne
l'esempio a New York e, nell'arco di pochi giorni, anche California,
Massachusetts e Illinois presero la stessa strada.
«Voglio tre miliardi di dollari» proclamò Bronfman
[148] nel dicembre 1997 «per farla finita con tutto: le class actions, il processo Volcker e il resto.» Nel frattempo,
D'Amato e i responsabili delle operazioni bancarie dello Stato di New York
cercarono di impedire alla neonata Unione delle banche svizzere (una fusione
dei principali istituti di credito svizzeri) di operare negli Stati Uniti. «Se
gli svizzeri insistono nel puntare i piedi, allora dovrò chiedere a tutti gli
azionisti americani di sospendere le loro operazioni con loro» mise in guardia
Bronfman nel marzo 1998. «La faccenda sta arrivando a un punto in cui o si
risolve da sé o si trasforma in una guerra senza quartiere.» In aprile, le
banche svizzere cominciarono a piegarsi sotto il peso della pressione, ma non
volevano ancora accettare una resa disonorevole. (Da quel che si dice, nel
corso del 1997 gli svizzeri spesero cinquecento milioni di dollari per
rintuzzare gli attacchi dell'industria dell'Olocausto.) «Un cancro terribile
affligge la società svizzera» si lamentò Melvyn Weiss, uno degli avvocati delle class actions. «Abbiamo dato loro la
possibilità di liberarsene con una dose massiccia di radiazioni a un prezzo
davvero esiguo e loro l'hanno rifiutata.» In giugno, le banche svizzere fecero
la loro «ultima offerta» di seicento milioni di dollari. Abraham Foxman,
responsabile dell'ADL, sconcertato dall'arroganza degli svizzeri, riuscì a
stento a trattenere la collera: «Questo ultimatum è un insulto alla memoria
delle vittime, ai sopravvissuti e ai [149]membri della comunità ebraica che in
buona fede si sono rivolti agli svizzeri per lavorare insieme al fine di
risolvere questo problema cosi complesso» (32).
Nel luglio 1998, Hevesi e Mc Call minacciarono nuove
e pesanti sanzioni. New Jersey, Pennsylvania, Connecticut, Florida, Michigan e
California aderirono nel giro di pochi giorni. A metà agosto, gli svizzeri
capitolarono. Nell'accordo per la class
action raggiunto con la mediazione del giudice Korman, le banche svizzere
accettarono di pagare un miliardo e duecentocinquanta milioni di dollari. «Lo
scopo del pagamento addizionale» recitava il comunicato stampa di una banca
svizzera «è di allontanare la minaccia di sanzioni come pure di lunghe e
costose azioni legali. (33)»
«Lei è stato un vero pioniere in questa saga» si
congratulò con D'Amato il Primo ministro israeliano Binyamin Netanyahu. «Il
risultato non è soltanto ciò che si è ottenuto in termini materiali, ma anche
una vittoria morale e un trionfo dello spirito. (34)»
Il miliardo e duecentocinquanta milioni di dollari
dell'accordo con la Svizzera copriva in linea di massima tre gruppi di casi: i
conti inattivi depositati in banche svizzere e reclamati, il rifiuto di
concessione di asilo a rifugiati e il beneficio che la Svizzera aveva ricavato
dal lavoro degli internati nei suoi campi (35). Nonostante la virtuosa
indignazione nei confronti dei «perfidi svizzeri», comunque, l'analogo operato
degli americani è, da [150] ogni punto di vista, altrettanto negativo, se non peggiore.
Tra breve tornerò alla questione dei conti inattivi negli Stati Uniti. Come la
Svizzera, l'America negò l'accesso a rifugiati ebrei in fuga dai nazisti prima
e durante la Seconda guerra mondiale. Ciò nonostante, il governo americano non
ha trovato opportuno, per esempio, risarcire i rifugiati ebrei che si trovavano
a bordo della sfortunata nave St. Louis. Immaginate la reazione se le migliaia
di rifugiati dell'America Centrale e di Haiti, cui venne negato asilo dopo la
fuga dagli squadroni della morte appoggiati dagli Stati Uniti, venissero qui a
chiedere un risarcimento. E, per quanto molto più piccola per estensione e per
risorse, la Svizzera all'epoca dell'Olocausto nazista accolse tanti ebrei
rifugiati quanti gli Stati Uniti: circa ventimila (36).
Il solo modo di espiare le colpe del passato - era
la lezioncina dei politici americani alla Svizzera - consisteva nel concedere
un risarcimento materiale. Stuart Eizenstat, sottosegretario al Commercio e
inviato speciale di Clinton per le restituzioni dei beni, giudicò l'indennizzo
della Svizzera agli ebrei «una conferma importante della volontà di questa
generazione di affrontare il passato e di ripararne i torti». Benché non
potessero essere «ritenuti responsabili per ciò che era accaduto anni prima» riconobbe
D'Amato alla stessa udienza al Senato, gli svizzeri avevano ancora «la
responsabilità e il dovere di tentare di fare ciò che è giusto in questo
momento».
[151] Analogamente,
appoggiando pubblicamente le richieste di risarcimento del Congresso Mondiale Ebraico,
il presidente Clinton osservò che «dobbiamo guardare in faccia e correggere,
meglio che possiamo, le terribili ingiustizie del passato». «La storia non cade
in prescrizione» disse il presidente James Leach durante le udienze della
commissione sulle attività bancarie della Camera e «non bisogna mai dimenticare
il passato». «Dovrebbe essere chiaro», scrissero i capigruppo al Congresso di
entrambi i partiti in una lettera al segretario di Stato, che «la risposta alla
questione della restituzione verrà considerata come una prova del rispetto per
i diritti umani fondamentali e per l'autorità della legge». E in un messaggio
al parlamento svizzero, il segretario di Stato Madeleine Albright spiegò che i
benefici economici derivanti dai conti nascosti degli ebrei «sono stati
trasmessi alle generazioni successive e questo è il motivo per cui il mondo ora
guarda al popolo svizzero non perché si assuma la responsabilità di azioni
commesse dai loro padri, ma perché si comporti generosamente nel fare ora ciò
che è possibile per riparare i torti passati» (37). Tutti nobili sentimenti, ma
ai quali non si presta nemmeno lontanamente attenzione - se non per metterli
immediatamente alla berlina - quando si tratta di risarcire gli afroamericani
per la schiavitù (38).
Resta poco chiaro, nell'accordo finale, come
andranno le cose per le «vittime bisognose dell'Olocausto».
[152] Gizella
Weisshaus, la prima a intentare causa per entrare in possesso di un conto
inattivo in Svizzera, ha tolto l'incarico al suo avvocato, Edward Fagan,
accusandolo con amarezza di averla usata. La parcella di Fagan ammontava a
quattro milioni di dollari. Quelle degli altri avvocati arrivavano ai quindici
milioni di dollari, con «molti» conti da seicento dollari l'ora. C'è un
avvocato che chiede duemilaquattrocento dollari per avere letto Nazi Gold [I cassieri dell'Olocausto], il libro di Tom Bower. «I gruppi
ebraici e i soprawissuti» riportò il «Jewish Week» di New York «in concorrenza
per avere una parte di quel miliardo e duecentocinquanta milioni di dollari
versato dalle banche svizzere in base all'accordo sull'Olocausto, stanno
iniziando a litigare tra di loro.» Querelanti e sopravvissuti sostengono che
tutto quel denaro dovrebbe andare direttamente a loro. Ma le organizzazioni
ebraiche non vogliono rinunciare a prendersi una fetta della torta. Nel
denunciare l'invadenza delle organizzazioni ebraiche, Greta Beer, una testimone
chiave del Congresso nella causa contro le banche svizzere, implorò la corte
del giudice Korman: «Non voglio essere schiacciata sotto una scarpa come un
insetto». Malgrado la sua sollecitudine verso le «vittime bisognose
dell'Olocausto», il Congresso Mondiale Ebraico vuole che circa la metà del
denaro degli svizzeri sia destinato alle organizzazioni ebraiche e
all'«educazione all'Olocausto». Il Centro Simon Wie[153]senthal sostiene che se
ricevono denaro organizzazioni ebraiche «degne», «una parte dovrebbe andare ai
centri di educazione ebraici». Pur di «mettere le mani» su una fetta più grossa
della torta, ciascuna delle organizzazioni di ebrei, sia riformati sia
ortodossi, si presenta come quella che i sei milioni di morti avrebbero
preferito come beneficiaria di questi soldi. L'industria dell'Olocausto aveva
costretto la Svizzera a raggiungere un accordo perché, si diceva, la cosa
essenziale era il tempo: «Le vittime bisognose dell'Olocausto muoiono ogni
giorno». Tuttavia, una volta che la Svizzera ebbe messo il denaro a
disposizione, l'urgenza svanì per miracolo: oltre un anno dopo il
raggiungimento dell'accordo non esisteva ancora un piano di distribuzione.
Quando il denaro verrà finalmente suddiviso, tutte le «vittime bisognose
dell'Olocausto» probabilmente saranno morte. In effetti, al dicembre 1999 meno
della metà dei duecento milioni di dollari del «Fondo speciale per le vittime
bisognose dell'Olocausto» istituito nel febbraio 1997 era stata distribuita
alle vittime vere e proprie. Una volta pagate le parcelle degli avvocati, il
denaro svizzero finirà nelle casse delle organizzazioni ebraiche «degne» (39).
«Forse nessun accordo è difendibile» scrisse sul «New York
Times» Burt Neuborne, professore di legge alla New York University e membro del
team legale che promosse la class action
«se consente che per le banche [154] svizzere l'Olocausto si configuri come
un'impresa che produce profitti.» Edgar Bronfman, con toni patetici, testimoniò
davanti alla commissione sulle attività bancarie della Camera che non si
sarebbe dovuto permettere agli svizzeri di «trarre profitto dalle ceneri
dell'Olocausto». D'altro canto, Bronfman ha ammesso di recente che la tesoreria
del Congresso Mondiale Ebraico ha ammassato non meno di «sette miliardi di
dollari circa» grazie al denaro dei risarcimenti (40).
Le autorevoli relazioni sulle banche svizzere sono state nel
frattempo pubblicate e ora è possibile giudicare se davvero ci sia stata, come
sostiene Bower, una «cospirazione elvetico-nazista durata cinquant'anni per
sottrarre miliardi agli ebrei europei e ai sopravvissuti all'Olocausto».
Nel luglio 1998, la Commissione indipendente di
esperti (presieduta da Bergier) diede alle stampe il suo rapporto, Switzerland and Gold Transactions in Second
World War [La Svizzera e la
compravendita d'oro durante la Seconda guerra mondiale]. (41) La
commissione confermò che le banche svizzere acquistarono oro dalla Germania
nazista, per un valore di circa quattro miliardi di dollari in valuta corrente,
sapendo che era stato sottratto alle banche centrali degli Stati europei
occupati. Nel corso delle udienze in Campidoglio, i membri del Congresso
espressero sconcerto per il fatto che le banche svizzere avessero trafficato in
beni rubati [155] e, cosa persino peggiore, che indulgessero ancora a queste
spregevoli pratiche. Deplorando il fatto che i politici corrotti depositino i
loro guadagni illeciti in banche svizzere, un membro del Congresso fece appello
alla Svizzera affinché emanasse finalmente una legge «contro la movimentazione
segreta di denaro [...] da parte di personaggi di spicco, o con ruoli
dirigenziali in politica, e di persone che rubano». Lamentando come «nelle
banche svizzere abbiano trovato un rifugio per le loro cospicue ricchezze un
gran numero di affaristi e di alti funzionari governativi corrotti, provenienti
da tutto il mondo», un altro membro del Congresso si domandò se «il sistema
bancario svizzero stia accogliendo malviventi di tal fatta, e i Paesi che essi
rappresentano, [...] come venne concesso un luogo sicuro al regime nazista
cinquantacinque anni fa? (42)» . Davvero il problema giustifica la
preoccupazione. Ogni anno, una cifra stimata tra i cento e i duecento miliardi
di dollari, frutto della corruzione politica, attraversa i confini di ogni
Paese e viene depositata in banche private. Le reprimende della commissione
sulle attività bancarie del Congresso avrebbero comunque avuto maggior peso se
una buona metà di questi «capitali illegali in fuga» non fossero depositati in
banche americane con la benedizione della legge americana. (43) Tra i
beneficiari recenti di questo «santuario» americano, si annoverano Raul Salinas
de Gortari, fratello dell'ex presidente messica[156]no, e la famiglia dell'ex
dittatore nigeriano, il generale Sani Abacha. «L'oro rubato da Hitler e dai
suoi scagnozzi» osserva Jean Ziegler, un parlamentare elvetico duramente
critico nei confronti delle banche del suo Paese, «nella sostanza non è diverso
dai soldi sporchi di sangue» che oggi i dittatori del Terzo Mondo tengono sui
loro conti privati in Svizzera. «Milioni di uomini, donne e bambini furono
condotti alla morte dai ladri autorizzati di Hitler» e «ogni anno centinaia di
migliaia di bambini [muoiono] di malattie e malnutrizione» nel Terzo Mondo
perché «i tiranni spogliano i propri Paesi con l'aiuto degli squali della
finanza svizzera (44)» . E anche con l'aiuto degli squali della finanza
americana, senza parlare del fatto, ancor più importante, che molti di questi
dittatori sono stati portati al governo dal potere americano, che li appoggia e
li autorizza a depredare i loro Paesi.
Sul caso specifico dell'Olocausto nazista, la
commissione indipendente arrivò alla conclusione che le banche svizzere
acquistarono «lingotti contenenti oro strappato dai criminali nazisti alle
vittime dei campi di lavoro e dei campi di sterminio», ma che comunque non lo
fecero consapevolmente: «Non esistono prove che i responsabili della decisione
alla banca centrale svizzera sapessero che la Reichsbank stesse consegnando
alla Svizzera lingotti contenenti oro ottenuto in quel modo». La commissione
valutò l'«oro delle vittime» acquistato in[157]consapevolmente dalla Svizzera
in 134.428 dollari in valuta dell'epoca, pari a circa un milione di dollari
attuali. Questa cifra si riferisce aff'«oro delle vittime» strappato a
internati sia ebrei sia non ebrei. (45)
Nel dicembre 1999, la «commissìone indipendente di
personalità illustri» (presieduta da
Volcker) diede alle stampe il suo Report on Dormant Accounts of Victims o
f Nazi Persecution in Swiss Banks (46)
[Relazione sui conti inattivi delle vittime della persecuzione nazista giacenti
nelle banche svizzere]. La Relazione documenta le risultanze di un'esauriente
verifica che durò tre anni e costò non meno di cinquecento milioni di dollari .
(47) Il nucleo delle conclusioni, riguardante il «trattamento dei conti
inattivi delle vittime della persecuzione nazista» merita di essere citato per
esteso:
Per quanto concerne le vittime della persecuzione
nazista, non sono emerse prove di discriminazione sistematica, di impedimento
all'accesso, di appropriazione indebita o di violazione della legge svizzera
sulla conservazione dei documenti. Tuttavia, la Relazione critica anche le
azioni di alcune banche per il modo in cui hanno trattato i conti di vittime
della persecuzione nazista. È necessario porre in evidenza il termine «alcune»
nella frase precedente, dal momento che le azioni oggetto di critica sono
principalmente quelle di specifiche banche nella loro gestione di conti
individuali intestati a vittime della [158] persecuzione nazista, e che queste
azioni sono emerse nel contesto di un'indagine che ha riguardato
duecentocinquattaquattro banche e coperto un arco temporale di circa
sessant'anni. Per quanto riguarda le azioni criticate, la Relazione riconosce
anche che per la condotta delle banche coinvolte in queste attività ci furono
circostanze attenuanti. La Relazione riconosce inoltre che ci sono molti casi
documentati in cui le banche cercarono attivamente i titolari scomparsi dei
conti o i loro eredi, ivi compresi alcune vittime dell'Olocausto, e pagarono il
saldo dei conti inattivi alle legittime parti.
La mite conclusione del paragrafo è che «la
commissione ritiene che le azioni oggetto di critica siano di sufficiente
importanza perché sia auspicabile documentare in questa sezione quali furono
gli errori in modo da imparare da essi e non ripeterli in faturo (48)» .
La Relazione concluse inoltre che, nonostante la
commissione non fosse in grado di seguire le tracce di tutti i documenti
bancari per il «periodo attinente» (1933-45), distruggere documenti senza
essere scoperti «sarebbe stato difficile, se non impossibile» e che «in effetti
non è emersa alcuna prova di distruzione sistematica delle registrazioni di
conto allo scopo di nascondere i comportamenti passati». La Relazione conclude
che la percentuale di documenti recuperati (sessanta per cento) era «davvero
straordinaria» e «degna di [15 9 ] nota», tenuto soprattutto conto del fatto
che la legge svizzera non richiede che i documenti siano conservati oltre i
dieci anni. (49)
Ebbene, si metta a confronto il tutto con la
versione che il «New York Times» riporta delle conclusioni della commissione
presieduta da Volcker. Sotto il titolo
The Deceptions of Swiss Banks [I
raggiri delle banche svizzere], (50) il «New York Times» scrisse che il
comitato non aveva trovato «prove decisive» che le banche svizzere avessero
trafficato con i conti inattivi di ebrei. Eppure, la Relazione affermava
categoricamente che non esisteva «alcuna prova». Il giornale prosegue asserendo
che la commissione aveva scoperto che «le banche svizzere avevano in qualche
maniera trovato il modo di far perdere le tracce di un numero impressionante di
questi conti». La verità è che la Relazione sottolineava il fatto che gli
svizzeri avevano conservato una quantità di documenti «davvero straordinaria» e
«degna di nota». Per finire, il «New York Times» riporta che secondo la commissione
«molte banche avevano respinto con crudeltà e con l'inganno molti familiari che
cercavano di rientrare in possesso dei patrimoni perduti». In realtà, la
Relazione sottolineò che solamente «alcune» banche avevano agito male e che in
quei casi c'erano «circostanze attenuanti», facendo parimenti rilevare i «molti
casi» in cui le banche cercarono attivamente i legittimi aventi diritto.
La Relazione accusa
effettivamente le banche svizze[160]re di non essere state «leali e franche»
sin dalle precedenti indagini sui conti inattivi del periodo dell'Olocausto.
Ciò nondimeno, sembra attribuire queste mancanze più a fattori tecnici che a
malafede. (51) La Relazione identifica cinquantaquattromila conti che
presentano «una probabile o possibile relazione con vittime della persecuzione
nazista», ma ritiene che solamente in metà (venticinquemila) di questi casi la
probabilità fosse abbastanza significativa da giustificare la pubblicazione dei
nomi dei titolari dei conti. In moneta corrente, il valore stimato per diecimila
di questi conti, per i quali era reperibile qualche informazione, oscilla tra i
centosettanta e i duccentosessanta milioni di dollari. Stimare il valore
corrente dei restanti conti si rivelò impossibile. (52) Il valore totale dei
conti inattivi realmente riguardanti l'epoca dell'Olocausto sarà probabilmente
molto superiore ai trentadue milioni di dollari stimati in origine dalle banche
svizzere, ma sarà decisamente inferiore alla cifra oscillante tra i sette e i
venti miliardi di dollari dichiarata dal Congresso Mondiale
Ebraico. Nella testimonianza in seguito resa alla
commissione sulle attività bancarie, Volcker osservò che il numero di banche
che fossero «probabilmente o possibilmente» in relazione con vittime
dell'Olocausto era «molte volte superiore a quello emerso dalle precedenti
indagini degli svizzeri». Comunque, continuava: «Sottolineo le parole
"probabilmente o possibilmente" [161] in quanto, fatta eccezione per
un numero relativamente esiguo di casi, dopo oltre mezzo secolo, non siamo in
grado di stabilire con certezza inconfutabile una relazione tra vittime e
titolari dei conti» (53).
La scoperta più esplosiva effettuata dalla commissione
presieduta da Volcker non venne riportata dai media americani: oltre alla
Svizzera, anche gli Stati Uniti
rientravano tra i luoghi dove gli ebrei d'Europa avevano cercato di mettere al
sicuro i propri beni:
Il clima di attesa della guerra e le difficoltà
economiche, insieme alla persecuzione degli ebrei e di altre minoranze per mano
dei nazisti prima e durante la Seconda guerra mondiale, fecero sì che molte
persone, e tra esse le vittime di queste persecuzioni, spostassero i loro beni
verso Paesi ritenuti in grado di fornire un rifugio sicuro (con la
significativa presenza di Stati Uniti e Regno Unito) [...] In considerazione
del fatto che la neutrale Svizzera confinava con Paesi dell'Asse (o comunque
occupati dalle forze dell'Asse), anche le banche svizzere e altre società
elvetiche d'intermediazione finanziaria divennero collettori di parte dei
patrimoni in cerca di un rifugio.
Un'appendice importante elenca le «destinazioni
preferite» dei beni mobili appartenenti agli ebrei europei: le più ricorrenti
risultarono gli Stati Uniti e la Svizzera.
[162] (In terza posizione «con molto distacco»
veniva il Regno Unito.) (54)
La domanda che sorge ovvia è: che fine hanno fatto i
conti inattivi dell'epoca dell'Olocausto depositati nelle banche americane? La commissione sulle
attività bancarie della Camera chiamò un esperto a testimoniare sulla
questione. Seymour Rubin, attualmente docente all'American Universìty, fu
vicecapo della delegazione statunitense nei negoziati con la Svizzera dopo la
Seconda guerra mondiale. Sotto gli auspici delle organizzazioni ebraiche
americane, Rubin aveva anche lavorato, nel corso degli anni Cinquanta, con un
«gruppo di esperti della vita delle comunità ebraiche in Europa» per
identificare conti inattivi dell'epoca dell'Olocausto nelle banche americane.
Nella sua deposizione, Rubin affermò che, dopo una rapida e molto superficiale
analisi limitata alle banche di New York, il valore di questi conti fu stimato
in sei milioni di dollari. Le organizzazioni richiesero al Congresso questa
somma per le «vittime bisognose» (negli Stati Uniti, per via della dottrina
della proprietà caduca, i conti inattivi abbandonati vengono incamerati dallo
Stato). Quindi Rubin ricordò:
La stima iniziale di sei milioni di dollari venne
rifiutata dai deputati interessati a promuovere un disegno di legge
sull'argomento, e nella bozza originaria fu stabilito [163] un tetto di tre
milioni di dollari [...] Di fatto, nel corso delle udienze alla commissione, i
tre milioni furono portati a uno. L'azione legislativa ridusse ulteriormente
l'ammontare a cinquecentomila dollari, cifra cui la Corte dei Conti si oppose, proponendo
un limite di duecentocinquantamila dollari. La legge, comunque, passò con uno
stanziamento di cinquecentomila dollari.
«Gli Stati Uniti» concluse Rubin «adottarono
solamente provvedimenti molto limitati per identificare i conti privi di eredi
e stanziarono [...] solamente cinquecentomila dollari contro i trentadue
milioni riconosciuti dalle banche svizzere anche prima dell'indagine Volcker.
(55)» In altre parole, il comportamento
americano è molto peggiore di quello svizzero. Va sottolineato che, fatta
eccezione per un accenno fugace di Eizenstat, durante le udienze delle
commissioni sulle attività bancarie della Camera e del Senato aventi come
oggetto le banche svizzere, non venne fatta menzione di conti inattivi negli
Stati Uniti. Inoltre, benché Rubin giochi un ruolo centrale nelle ricostruzioni
dell'affare, delle banche svizzere (Bower dedica pagine e pagine a questo
«crociato del Dipartimento di Stato»), nessuno fà parola della sua
testimonianza alla commissione della Camera dei rappresentanti, dove espresse
anche «una certa dose di scetticismo circa le grosse somme di denaro [nei conti
inattivi in Svizzera] di cui si va parlan[164]do». È inutile dire che i
puntuali rilievi di Rubin su questo argomento vennero altrettanto puntualmente
ignorati.
Dove erano le proteste del Congresso contro i
«perfidi» banchieri americani? Uno dopo l'altro, i membri delle commissioni
sulle attività bancarie di Camera e Senato chiesero a gran voce che la Svizzera
«alla fine pagasse», ma nessuno chiese che gli Stati Uniti facessero lo stesso.
Anzi, un membro della commissione sulle attività bancarie della Camera affermò
sfacciatamente, con l'approvazione di Bronfman, che «soltanto» la Svizzera «non
è riuscita a dimostrare di avere il coraggio di confrontarsi con la sua storia»
(56). Non sorprende che l'industria dell'Olocausto non abbia lanciato una
campagna per un'indagine sulle banche americane: una verifica condotta con lo
stesso grado di scientificità di quella svizzera ai cittadini americani sarebbe
costata in proporzione non milioni ma miliardi di dollari (57) e, nel momento
in cui fosse stata portata a termine, gli ebrei americani avrebbero chiesto
asilo a Monaco di Baviera. Il coraggio ha i suoi limiti.
Già alla fine degli anni Quaranta, quando gli Stati
Uniti stavano facendo pressione sulla Svizzera perché identificasse i conti
inattivi intestati a ebrei, gli svizzeri protestarono che l'America avrebbe
fatto meglio a occuparsi degli affari suoi (58). A metà del 1997, il
governatore di New York Pataki annunciò l'istituzione di una [165] commissione
di Stato per il recupero dei beni delle vittime dell'Olocausto con il compito
di esaminare i reclami contro le banche svizzere. Tutt'altro che impressionati,
gli svizzeri suggerirono che la commissione avrebbe potuto impiegare meglio il
proprio tempo vagliando i reclami contro le banche americane e israeliane (59).
In effetti, Bower ricorda che i banchieri israeliani avevano «rifiutato di
stilare elenchi di conti inattivi intestati a ebrei» dopo la guerra del 1948;
inoltre, il «Financial Times» ha riportato che «diversamente dai Paesi europei,
le banche d'Israele e le organizzazioni sioniste stanno resistendo alle
pressioni per costituire commissioni indipendenti che stabiliscano quante
proprietà e quanti conti inattivi fossero intestati a sopravvissuti
all'Olocausto e come rintracciare i titolari». (All'epoca del mandato
britannico, gli ebrei europei comprarono appezzamenti di terra e aprirono conti
correnti in Palestina per sostenere il movimento sionista o per prepararsi a
una futura immigrazione.) Nell'ottobre 1998, il Congresso Mondiale Ebraico e la
World Jewish Restitution Organization «presero la decisione di massima di non
porre la questione dei beni appartenenti alle vittime dell'Olocausto in
territorio israeliano sulla base del fatto che questa responsabilità era di
competenza del governo israeliano» («Haaretz»). Quindi il mandato di queste
organizzazioni arriva fino alla Svizzera, ma non allo Stato israeliano.
L'accusa più sensa[166]zionale mossa contro le banche svizzere fu che queste
avevano richiesto agli eredi delle vittime dell'Olocausto nazista i certificati
di morte. L'avevano fatto anche le banche israeliane, ma si cercherebbero
invano denunce nei confronti dei «perfidi israeliani». A dimostrazione del fatto
che «non si può porre equivalenza morale tra le banche in Israele e quelle in
Svizzera» il «New York Times» riportò le parole di un ex legislatore
israeliano: «Da noi si è trattato al massimo di negligenza; in Svizzera fu un
crimine» (60). Ogni commento è superfluo.
Nel maggio 1998, una commissione consultiva
presidenziale sui beni dell'Olocausto negli Stati Uniti fu incaricata dal
Congresso di «condurre una nuova ricerca sul destino dei beni sottratti alle
vittime dell'Olocausto e giunti in possesso del governo federale americano» e
di «suggerire al presidente la politica che si dovrebbe adottare per restituire
tali beni rubati ai legittimi proprietari o ai loro eredi». «Il lavoro della
commissione dimostra inconfitabilmente» dichiarò il suo presidente Bronfman
«che quanto ai beni dell'Olocausto negli Stati Uniti vogliamo attenerci a
quegli stessi standard di verità su cui abbiamo portato altre nazioni.» Ma una
commissione consultiva presidenziale con un budget di sette milioni di dollari
è una cosa piuttosto diversa da un'indagine esterna (costata cinquecento
milioni di dollari) che ha coinvolto l'intero sistema bancario di una nazione e
ha comportato l'accesso sen[167]za restrizioni a tutti i suoi documenti (61).
Per dissipare ogni dubbio sul fatto che gli Stati Uniti erano schierati dalla
parte di quelli che non lasciavano nulla di intentato per restituire i beni
degli ebrei rubati all'epoca dell'Olocausto, James Leach, presidente della
commissione sulle attività bancarie della Camera dei rappresentanti, nel
febbraio 2000 annunciò con orgoglio che un museo del North Carolina aveva
restituito un quadro a una famiglia austriaca. «È un segno del senso di
responsabilità americano [...] e penso che sia un gesto cui questa commissione
debba dare risalto. (62)»
Per l'industria dell'Olocausto la
vicenda delle banche svizzere, come i tormenti postbellici patiti dal
«sopravvissuto» svizzero Binjamin Wilkomirski, era un'ulteriore conferma
dell'inveterato e irrazionale odio dei gentili. Il caso mise in risalto la grossolana
insensibilità che anche un «Paese europeo liberal-democratico», conclude Itamar
Levin, poteva mostrare «nei confronti di quanti portano sulla propria pelle le
ferite fisiche e psicologiche del più grave crimine della storia». Nell'aprile
1997, una ricerca compiuta dall'Università di Tel Aviv documentò «un'evidente
impennata» dell'antisemitismo svizzero. Eppure questa inquietante scoperta non
poteva essere messa in alcun modo in relazione con l'estorsione attuata
dall'industria dell'Olocausto nei confronti della Svizzera.
«L'antisemitismo non è colpa degli ebrei» sospirò
Bronfman «è colpa degli antisemiti. (63)»
[168] Il risarcimento materiale
per l'Olocausto «è la più importante prova morale che l'Europa si trovi ad
affrontare alla fine del ventesimo secolo» sostiene Itamar Levin. «Sarà questa
la vera prova del trattamento riservato agli ebrei da parte del
Continente. (64)» E anzi, imbaldanzita dal fatto di
essere riuscita a spillare soldi alla Svizzera, l'industria dell'Olocausto è
passata in fretta a «mettere alla prova» il resto dell'Europa. La tappa
successiva è stata la Germania.
Dopo avere regolato i conti con la Svizzera
nell'agosto 1998, in settembre l'industria dell'Olocausto attuò la medesima
strategia vincente contro la Germania. Gli stessi tre team legali
(Hausfeld-Weiss, Fagan-Swift, e il Consiglio mondiale delle comunità ebraiche
ortodosse) intentarono una class action
contro l'industria privata tedesca, domandando non meno di venti miliardi di
dollari di risarcimento. Hevesi, il revisore dei conti della città di New York,
brandendo l'arma del boicottaggio economico, cominciò a «tenere sotto
controllo» i negoziati nell'aprile 1999. La commissione sulle attività bancarie
della Camera dei rappresentanti tenne le udienze in settembre. Il membro dei
Congresso Carolyn Maloney dichiarò che «il tempo trascorso non deve essere una
scusante per un arricchimento iniquo» (in ogni caso, un conto è il lavoro
schiavistico degli ebrei, un altro quello degli afroamericani) mentre Leach,
presidente della commissione,[169] recitò il solito vecchio copione: «La storia
non cade in prescrizione». Stuart Eizenstat disse alla commissione che le
società tedesche in rapporti d'affari con gli Stati Uniti «danno prova qui
della loro buona volontà, e vorranno continuare sulla strada del civismo di cui
hanno sempre dato prova negli Stati Uniti e in Germania». Mettendo da parte le
amenità diplomatiche, il membro del Congresso Rick Lazio raccomandò senza mezzi
termini alla commissione di «concentrarsi sulle aziende private tedesche, in
particolare quelle che fanno affari con gli Stati Uniti» (65).
Per fomentare l'isteria collettiva contro la
Germania, nell'ottobre 1999 l'industria dell'Olocausto si servì di molteplici
annunci pubblicitari a piena pagina sui quotidiani. La terribile verità non
bastava: si ricorse a qualunque mezzo. In un'inserzione pubblicitaria che
denunciava la casa farmaceutica tedesca Bayer venne fatto il nome di Josef
Mengele, nonostante non ci sia alcuna prova che la Bayer abbia «diretto» i suoi
terrificanti esperimenti. Rendendosi conto dell'inesorabilità dell'infernale
macchina dell'Olocausto, verso la fine dell'anno i tedeschi cedettero e
accettarono un accordo per una cifra considerevole. Il «Times» di Londra
attribuì questa resa alla campagna «Holo-cash» portata avanti negli Stati
Uniti. «Non avremmo potuto raggiungere un accordo» riferì in seguito Eizenstat
alla commissione sulle attività bancarie della Camera «sen[170]za il
coinvolgimento personale e la presa di posizione del presidente Clinton [ ... ]
e di altri influenti funzionari» del governo americano (66).
L'industria dell'Olocausto ribadì che la Germania
aveva l'«obbligo morale e giuridico» di risarcire gli ex internati nei campi di
lavoro. «Questi prigionieri costretti al lavoro schiavistico meritano un minimo
di giustizia» sostenne Eizenstat «nei pochi anni che restano loro da vivere.»
Tuttavia, come si è già detto, è semplicemente falso sostenere che essi non
avessero ricevuto alcun risarcimento. In base agli accordi originari, il governo
tedesco garantiva un indennizzo ai prigionieri dei campi di lavoro. Il governo
risarcì anche gli ex internati per «la privazione della libertà» e per «danni
fisici e materiali». Soltanto il mancato versamento dei salari non era coperto
da indennizzo. Tutti coloro che sostennero di avere subito danni permanenti
ricevettero un consistente vitalizio (67). Inoltre la Germania versò alla
Claims Conference circa un miliardo di dollari (in valuta corrente) per quegli
ex internati ebrei che avevano ricevuto un indennizzo minimo. Come si è già
detto, la Claims Conference, venendo meno agli accordi con la Germania,
utilizzò invece il denaro per vari progetti che le stavano a cuore. La
giustificazione che fornì per questo (ab)uso del risarcimento tedesco partiva dal
presupposto che «ancor prima che si potesse attingere ai fondi [...] le
necessità delle vittime "bisognose" del na[171]zismo erano già state
ampiamente soddisfatte» (68). Eppure, ancora cinquant'anni dopo, l'industria
dell'Olocausto stava domandando soldi per «le vittime bisognose dell'Olocausto»
che erano vissute nell'indigenza perché, a suo dire, i tedeschi non le avevano
mai risarcite.
Che cosa costituisca un «giusto» risarcimento per
gli ex internati ebrei costretti al lavoro schiavistico è decisamente un
interrogativo senza risposta. Tuttavia, si può dire questo: in base ai termini
del nuovo accordo, a ciascuno di loro è destinata una cifra pari a circa
settemilacinquecento dollari. Se la Claims Conference avesse distribuito
correttamente fin dall'inizio il denaro della Germania, un maggior numero di ex
internati avrebbe ricevuto molto di più e molto prima.
Se «le vittime bisognose dell'Olocausto» vedranno o
no una parte dei nuovi soldi della Germania è una questione tuttora aperta. La
Claims Conference vuole una bella fetta di torta a titolo di suo «fondo
speciale». Secondo il «Jerusalem Report», la Claims Conference ha «tutto da
guadagnare nel fare in modo che i sopravvissuti non ottengano niente». Michael
Kleiner, deputato della Knesset israeliana (Herut), tacciò la Claims Conference
di essere uno «Judenrat, che svolge, in modo diverso, la stessa opera dei nazisti».
«Un'associazione disonesta, che si muove costantemente in segreto, e inquinata
da una vergognosa e ben nota corruzione morale», ribadiva Kleiner «un ente
malvagio che maltratta gli ebrei [172] sopravvissuti all'Olocausto e i loro
eredi mentre se ne sta seduto su un enorme mucchio di denaro che appartiene a
singoli individui ma che esso cerca di incamerare con ogni mezzo, sebbene
queste persone siano ancora in vita. (69)» Nel frattempo, Stuart Eizenstat,
testimoniando davanti alla commissione sulle attività bancarie della Camera,
continuava a incensare la «trasparenza dell'operato della Jewish Material
Claims Conference nel corso degli ultimi quarantanni». A eccellere per cinismo
fu il rabbino Israel Singer. Oltre all'incarico di segretario generale al
Congresso Mondiale Ebraico, Singer ricopriva quello di vicepresidente della
Claims Conference e aveva il compito di condurre i negoziati nelle trattative
con la Germania sulla questione del lavoro schiavistico. Dopo il raggiungimento
degli accordi con la Svizzera e con la Germania, egli, mostrando di essere un
uomo pio, ribadi più volte alla commissione sulle attività bancarie della
Camera che «sarebbe [stata] una vergogna» se gli indennizzi per l'Olocausto
fossero stati «pagati agli eredi invece che ai sopravvissuti». «Non vogliamo
che quei soldi vadano agli eredi. Vogliamo che vadano alle vittime.» Però,
«Haaretz» riferisce che Singer fu uno dei più convinti sostenitori
dell'utilizzo del denaro dei risarcimenti «per far fronte alle necessità
dell'intera comunità ebraica, e non solo di quegli ebrei che furono così
fortunati da sopravvivere all'Olocausto e raggiungere la vecchiaia» (70).
[173] In una pubblicazione dello US Holocaust
Memorial Museum, Henry Friedlander, autorevole studioso di storia dell'Olocausto
nazista ed ex internato ad Auschwitz, in relazione al numero dei sopravvissuti
alla fine della guerra ipotizzò:
Se all'inizio del 1945 c'erano circa 715.000
prigionieri nei campi, e almeno un terzo, vale a dire circa 238.000, morì nella
primavera del 1945, possiamo supporre che sopravvissero al massimo 475.000
prigionieri. Dato che gli ebrei erano stati uccisi in modo sistematico, e
soltanto quelli scelti per lavorare (ad Auschwitz pari circa al quindici per
cento) avevano una possibilità di sopravvivenza, dobbiamo supporre che al
momento della liberazione gli ebrei costituissero non più del venti per cento
della popolazione dei campi.
«Perciò possiamo stimare» concludeva «che il numero
di sopravvissuti ebrei non superasse le centomila unità. » La stima di
Friedlander degli ex internati ebrei costretti al lavoro schiavistico alla fine
della guerra, tra l'altro, è considerata relativamente alta dagli economisti.
In un autorevole saggio, Leonard Dinnerstein calcolava: «Sessantamila ebrei
[...] uscirono dai campi di concentramento. Nel giro di una settimana ne
morirono più di ventimila» (71).
In un briefing del Dipartimento
di Stato del maggio [174] 1999, Stuart Eizenstat stimò il numero totale degli
ex internati ancora in vita, ebrei e non ebrei, citando come fonte «gruppi che
li rappresentano», in un numero «compreso tra le settanta e le novantamila
persone» (72). Eizenstat era l'inviato americano ai negoziati sui campi di
lavoro tedeschi e lavorò a stretto contatto con la Claims Conference (73). La sua
stima portava il numero totale degli ex deportati ancora vivi a una cifra
oscillante tra i quattordicimila e i diciottomila (il venti per cento dei
settanta-novantamila). Ciò nonostante, non appena iniziarono i negoziati,
l'industria dell'Olocausto chiese risarcimenti per
centotrentacinquemila ex internati ebrei costretti
al lavoro schiavistico e il loro numero totale, comprendendo i non ebrei, passò
a duecentocinquantamila (74). In altre parole, il numero degli ex deportati
ebrei nei campi di lavoro ancora in vita fu quasi decuplicato rispetto al
maggio 1999 e la forbice tra ex deportati ebrei e non ebrei si restrinse
drasticamente. In effetti, a voler credere all'industria dell'Olocausto, oggi
sono vivi più ex deportati ebrei nei campi di lavoro rispetto a cinquant'anni
fa. «Quale rete aggrovigliata tessiamo» scrisse Sir Walter Scott «quando stiamo
imparando a mentire.»
Quando l'industria dell'Olocausto gioca con i numeri
per aumentare le richieste di risarcimento, gli antisemiti sfottono
allegramente gli «ebrei bugiardi» che «mercanteggiano» perfino sulla propria
morte. Con i suoi [175] giochi di prestigio, l'industria dell'Olocausto ha, per
quanto involontariamente, riabilitato il nazismo. Raul Hilberg, l'autorità per
antonomasia sull'Olocausto nazista, stima che gli ebrei uccisi siano stati
cinque milioni e centomila (75). Eppure, se oggi fossero vivi
centotrentacinquemila ex internati nei campi di lavoro, alla guerra dovrebbero
essere sopravvissuti circa seicentomila, che sono almeno cinquecentomila in più
rispetto alle stime normali. Si dovrebbe poi sottrarre questo mezzo milione ai
cinque milioni e centomila uccisi. Non soltanto i «sei milioni» diventano una
cifra insostenibile, ma le cifre stimate dall'industria dell'Olocausto si
avvicinano di molto a quelle di coloro che negano l'Olocausto. Si consideri che
Heinrich Himmler, l'organizzatore della Soluzione Finale, nel gennaio 1945
calcolò tutta la popolazione dei campi in poco più di settecentomila persone e
che, secondo Friedlander, circa un terzo di loro era stato eliminato entro il
mese di maggio. Ebbene, se gli ebrei costituivano solamente il venti per cento
della popolazione uscita viva dai campi, e se, come sostiene l'industria
dell'Olocausto, alla guerra sopravvissero seicentomila ebrei deportati, allora
in tutto sarebbero dovuti sopravvivere tre milioni di prigionieri. Sulla base
dei calcoli dell'industria dell'Olocausto, le condizioni di vita dei campi di
concentramento non sarebbero state così dure e si dovrebbero ipotizzare un
tasso di natalità decisamente alto e uno di mortalità decisamente basso (76).
[176] È risaputo che la Soluzione Finale fu uno
sterminio industriale, portato a termine con efficienza senza precedenti, con
tecniche da catena di montaggio (77). Ma se, come sostiene l'industria
dell'Olocausto, sopravvissero svariate centinaia di migliaia di ebrei, dopo
tutto la Soluzione Finale non fu così efficiente. Deve essere stato un massacro
condotto in modo casuale: esattamente quello che sostengono coloro che negano
l'esistenza dell'Olocausto. Les extrêmes
se touchent.
In una recente intervista, Raul Hilberg sottolinea
che per capire l'Olocausto nazista i numeri sono fondamentali. In effetti, con
la sua radicale revisione delle cifre, la Claims Conference solleva dubbi sulla
sua stessa interpretazione. Secondo la sua «dichiarazione programmatica» per i
negoziati con la Germania «il lavoro schiavistico costituì uno dei tre metodi
principali che i nazisti impiegarono per uccidere gli ebrei: gli altri furono
le fucilazioni e le camere a gas. Uno degli obiettivi del lavoro schiavistico
era di sfruttare i prigionieri fino a provocarne la morte [...] Il termine
"schiavistico" è inesatto in questo contesto, perché in linea di
massima i padroni hanno interesse a preservare la vita e la salute dei loro
schiavi. Il progetto nazista per gli "schiavi", invece, era quello di
sfruttare il loro potenziale lavorativo per poi eliminarli». Tranne coloro che
negano l'Olocausto, nessuno ha ancora messo in discussione il fatto che i
nazisti consegnarono a questo terribile de[177]stino gli internati costretti al
lavoro schiavistico. Come è possibile però conciliare questi fatti riconosciuti
con l'asserzione che molte centinaia di migliaia di ebrei impiegati siano
sopravvissuti? La Claims Conference non ha in questo modo aperto una breccia
nel muro che separa la spaventosa verità sull'Olocausto nazista dalla sua
negazione? (78)
In un'inserzione a piena pagina sul «New York
Times», luminari dell'industria dell'Olocausto come Elie Wiesel, il rabbino
Marvin Hier e Steven T. Katz condannarono «la negazione dell'Olocausto da parte
della Siria». Il testo criticava duramente un editoriale apparso su un
quotidiano ufficiale del governo siriano che sosteneva che Israele «inventa
storie sull'Olocausto» allo scopo di «prendere più soldi dalla Germania e da
altri Paesi occidentali». Per quanto spiacevole, l'accusa siriana è vera.
L'ironia, che sfugge tanto al governo siriano quanto ai firmatari della pagina
a pagamento, è che questa stessa storia delle molte centinaia di migliaia di
sopravvissuti costituisce una forma di negazione dell'Olocausto. (79)
L'estorsione nei confronti di Svizzera e Germania è
stata solamente il preludio del gran finale: l'estorsione nei confronti
dell'Europa dell'Est. Con il crollo del blocco sovietico, in quello che era
stato il cuore geografico della comunità ebraica europea si aprirono
prospettive allettanti. Intonando la salmodia ipocrita delle «vit[178]time
bisognose dell'Olocausto», l'industria dell'Olocausto ha cercato di estorcere
miliardi di dollari a questi Paesi già impoveriti e, perseguendo il suo fine
senza alcun riguardo e in modo inflessibile, è diventata la principale
fomentatrice dell'antisemitismo in Europa.
L'industria dell'Olocausto si è presentata nelle
vesti dell'unico legittimo avente diritto a reclamare i beni comuni e personali
di coloro che perirono durante l'Olocausto nazista. «Esiste un accordo con il
governo israeliano» riferì Edgar Bronfman alla commissione sulle attività
bancarie della Camera dei rappresentanti «in base al quale i beni senza eredi
dovrebbero essere accreditati alla World Jewish Restitution Organization.»
Utilizzando questo «mandato», l'industria dell'Olocausto ha chiesto ai Paesi
dell'ex blocco sovietico di consegnare tutti i beni che prima della guerra
erano di proprietà di ebrei o di provvedere a un risarcimento in denaro. (80)
Tuttavia, diversamente dal caso di Svizzera e Germania, avanza queste richieste
senza dare loro troppo risalto pubblicitario: l'opinione pubblica, infatti, non
è stata troppo contraria al ricatto nei confronti dei banchieri svizzeri e
degli industriali tedeschi, ma potrebbe guardare con meno favore al ricatto
degli stremati contadini polacchi. inoltre, gli ebrei che hanno perso parenti
nell'Olocausto nazista potrebbero anche lanciare qualche occhiata risentita
alle macchinazioni della VJRO: la pretesa di essere i legittimi eredi dei morti
per incame[179]rarne i beni potrebbe essere facilmente scambiata per
sciacallaggio. D'altro canto, l'industria dell'Olocausto non ha bisogno di
mobilitare l'opinione pubblica: con il sostegno dei funzionari-chiave
dell'amministrazione americana, può annientare facilmente la debole resistenza
di nazioni già prostrate.
«È importante comprendere che i nostri sforzi per la
restituzione di proprietà comunitarie» spiegò Stuart Eizenstat a una
commissione parlamentare «sono tutti finalizzati alla rinascita e al
rinnovamento della vita degli ebrei» nell'Europa dell'Est. Al fine di
«promuovere il rinnovarnento» della vita ebraica in Polonia, la World Jewish
Restitution Organization sta avanzando pretese su oltre seimila proprietà
comunitarie ebraiche prebelliche, comprese quelle attualmente usate come scuole
e ospedali. Prima della guerra, la popolazione ebraica della Polonia era
nell'ordine dei tre milioni e mezzo di persone; quella attuale è di alcune
migliaia. Promuovere la rinascita della vita ebraica deve per forza comportare
l'assegnazione di una sinagoga o di un edificio scolastico a ogni ebreo
polacco? La WJRO sta anche redamando la proprietà di centinaia di migliaia di
appezzamenti di terra polacca, valutati in svariate decine di miliardi di
dollari. «Gli amministratori polacchi temono», riporta «Jewish Week», che la
richiesta «possa portare la nazione alla bancarotta.» Quando il parlamento polacco
propose di porre dei limiti ai risarcimenti per evitare l'in[180]solvenza, Elan
Steinberg del CME denunciò la legge come un «atto fondamentalmente
antiamericano». (81)
Esercitando pesanti pressioni
sulla Polonia, gli avvocati dell'industria dell'Olocausto intentarono una class action presso la corte del
giudice Korman per risarcire i «sopravvissuti all'Olocausto che stanno
invecchiando e morendo». Nella denuncia si sosteneva che i governi postbellici
della Polonia «proseguirono nel corso degli ultimi cinquantaquattro anni» una
politica genocida tesa a «espellere fino all'ultimo» ebreo. I membri dei New
York City Council concordarono una risoluzione all'unanimità che chiedeva alla
Polonia «di approvare adeguate norme legislative che mettessero in atto la
restituzione completa dei beni dell'Olocausto», mentre cinquantasette membri
del Congresso (capeggiati da Anthony Weiner, di New York) inviarono una lettera
al parlamento polacco in cui chiedevano «adeguate norme legislative volte alla
restituzione del cento per cento di tutte le proprietà e i beni confiscati
durante l'Olocausto». «Dal momento che le persone coinvolte diventano ogni
giorno più vecchie» precisava la lettera
«il tempo a disposizione per risarcire coloro che
hanno subito dei torti sta scadendo.» (82)
Nella testimonianza resa alla commissione sulle
attività bancarie del Senato, Stuart Eizenstat deplorò la lentezza degli
sfratti nell'Europa orientale: «Nel corso dell'opera di recupero delle
proprietà sono sorti mol[181]tissimi problemi. In alcuni Paesi, per esempio, le
persone o le comunità che hanno cercato di rivendicare le proprietà si sono
sentite chiedere, a volte intimare, [...] di permettere agli attuali occupanti
di restare per un lungo periodo di tempo pagando canoni d'affitto a prezzo
controllato». (83) La scarsa sensibilità della Bielorussia turbò in particolar
modo Eizenstat. Quello Stato è «molto, molto indietro» nella restituzione delle
proprietà ebraiche di prima della guerra, riferì alla commissione sulle
relazioni internazionali della Camera dei rappresentanti. (84) Il reddito
mensile pro capite della Bielorussia
è di cento dollari.
Per forzare alla sottomissione i governi
recalcitranti, l'industria dell'Olocausto agitò lo spauracchio delle sanzioni
americane. Eizenstat fece pressione sul Congresso per «esaltare» l'importanza
dei risarcimenti per l'Olocausto, perché venissero messi «in cima alla lista»
dei requisiti per quei Paesi dell'Est che cercano di entrare nell'OCSE, nella
NWO, nell'Unione Europea, nella Nato e nel Consiglio d'Europa: «Se voi parlate,
loro ascolteranno [...] Capiranno al volo». Israel Singer, del Congresso
Mondiale Ebraico, chiese al Congresso di «continuare a guardare la lista della
spesa» per «controllare» che ogni Paese pagasse. «È estremamente importante che
le nazioni coinvolte nella questione comprendano» affermò Benjamin Gilman,
membro del Congresso e della commissione sulle relazioni in[182]ternazionali
della Camera, «che la loro reazione [...] è uno dei molti punti di riferimento
sulla cui base gli Stati Uniti valutano le relazioni bilaterali.» Avraham
Hirschson, presidente della Commissione per la restituzione della Knesset
israeliana e rappresentante d'Israele presso la World Jewish Restitution
Organization, pagò un tributo alla complicità del Congresso nell'estorsione.
Ricordando le sue «battaglie» con il Primo ministro rumeno, Hirschson
testimoniò: «Nel mezzo della polemica feci un'osservazione che cambiò
l'atmosfera. Gli dissi: «Bene, tra due giorni sarò a un'udienza al Congresso.
Che cosa volete che dica loro?". L'atmosfera cambiò completamente». Il
Congresso Mondiale Ebraico ha «creato una perfetta industria dell'Olocausto»
avverte un avvocato dei sopravvissuti ed è «colpevole di promuovere [...] un
odioso ritorno di fiamma dell'antisemitismo in Europa». (85)
«Se non fosse per gli Stati Uniti d'America» osservò
correttamente Eizenstat nel suo peana al Congresso «ben poche, o forse nessuna,
di queste iniziative oggi starebbero procedendo.» Per giustificare le pressioni
esercitate sull'Europa orientale, spiegò che un tratto distintivo della
moralità «occidentale» è di «restituire o risarcire le proprietà comuni o
personali di cui ci si è ingiustamente appropriati». Per le «nuove democrazie»
dell'Europa dell'Est, adeguarsi a questo standard «darebbe la misura del loro
passaggio dal novero dei tota[183]litarismi a quello delle democrazie».
Eizenstat è un funzionario di alto livello del governo americano e un
importante sostenitore d'Israele. Eppure, a giudicare tanto dalle
rivendicazioni dei nativi americani quanto da quelle dei palestinesi, né gli
Stati Uniti né Israele hanno ancora compiuto questo passaggio. (86)
Nella sua testimonianza resa alla Camera, Hirschson
rievocò il malinconico spettacolo di anziane «vittime bisognose dell'Olocausto»
provenienti dalla Polonia «che si presentano ogni giorno nel mio ufficio alla
Knesset [...] implorando di riavere i loro beni [...], di riavere le case che
avevano lasciato, i negozi che avevano perduto». Nel frattempo, l'industria
dell'Olocausto muove guerra su un secondo fronte. Rifiutando l'ingannevole
mandato della World Jewish Restitution Organization, le comunità ebraiche
locali dell'Europa orientale hanno avanzato le loro pretese sui beni di
proprietà ebraica senza eredi. Si assiste quindi alla tanto auspicata rinascita
della vita ebraica nel momento in cui gli ebrei dell'Europa orientale mettono a
profitto le loro radici appena ritrovate e ottengono una fetta del bottino
dell'Olocausto. (87)
L'industria dell'Olocausto si
vanta di avere stanziato il denaro dei risarcimenti per opere di beneficenza a
favore di ebrei. «Per quanto la beneficenza sia una nobile causa» osserva un
avvocato che rappresenta le vere vittime «è sbagliato farla con i soldi di
altre per[184]sone.» Una delle cause predilette è l'«educazione all'Olocausto»,
a sentire
Eizenstat «il più grande lascito dei nostro lavoro».
Hirschson è anche fondatore di «March of the Living», un'organizzazione chiave
del sistema di educazione all'Olocausto e uno dei principali beneficiari del
denaro dei risarcimenti. In questo spettacolo d'ispirazione sionista giovani
ebrei di tutto il mondo convergono sui campi di sterminio in Polonia per un
primo giro di istruzione sulla malvagità dei gentili prima di essere portati in
salvo in Israele. Il «Jerusalem Post» coglie il kitsch dell'Olocausto che
contraddistingue la «March»: «"Ho tanta paura, non ce la faccio, vorrei
essere già in Israele" continua a dire una giovane del Connecticut. Sta
tremando [ ... ] Il suo amico prontamente estrae una grande bandiera
israeliana. Lei la avvolge intorno a entrambi; poi proseguono». Una bandiera
israeliana: mai andare in giro senza. (88)
David Harris dell'AJC, parlando
alla Washington Conference on Holocaust Era Assets, sentenziò con eloquenza sul
«profondo impatto» che i pellegrinaggi ai campi di sterminio nazisti hanno
sulla gioventù ebraica. Il «Forward» riportò un episodio particolarmente ricco
di pathos. Sotto il titolo Israeli Teens
Frolic With Strippers After Auschwitz Visit
[Ragazzi israeliani si divertono con spogliarelliste dopo una visita ad
Auschwitz], il quotidiano spiegava che, secondo gli esper[185]ti, gli studenti
dei kibbutz avevano
«pagato spogliarelliste per scaricare le violente
emozioni suscitate dalla visita» ad Auschwitz. A quanto pare gli stessi tormenti
assillarono gli studenti ebrei che partecipavano a una gita di studio dello US
Holocaust Memorial Museum e che, stando al «Forward», «se ne andavano in giro a
spassarsela, a pomiciare e quant'altro». (89) Come dubitare della saggezza
della decisione da parte dell'industria dell'Olocausto di investire il denaro
dei risarcimenti nell'educazione all'Olocausto piuttosto che «sprecare i fondi»
(Nahum Goldmann) per i sopravvissuti dei campi di sterminio nazisti? (90)
Nel gennaio 2000 i rappresentanti di circa cinquanta
Stati, tra cui il Primo ministro di Israele Ehud Barak, si riunirono a
Stoccolma per partecipare a un importante convegno sull'Olocausto. La
dichiarazione conclusiva del convegno sottolineava il «solenne impegno» della
comunità internazionale a combattere i mali del genocidio, della pulizia
etnica, dei razzismo e della xenofobia. Più tardi, un giornalista svedese
chiese a Barak dei profughi palestinesi. In linea di principio, rispose Barak,
era contrario all'idea che anche un solo profugo entrasse in Israele: «Non
possiamo farci carico di alcuna responsabilità morale, giuridica o di altro
genere per i profughi». Il convegno fu davvero un successo straordinario. (91)
La Guide to
Compensation and Restitution for Holo[186]caust Survivors [Guida al risarcimento e alla restituzione dei beni
per i sopravvissuti all'Olocausto], testo ufficiale della Claims Conference,
stila un lungo elenco di organizzazioni affiliate: è fiorito un vasto apparato
burocratico, pieno di soldi. Compagnie d'assicurazione, musei d'arte, aziende
private, possidenti e agricoltori praticamente in ogni Paese europeo sono nel
mirino dell'industria dell'Olocausto. Ma le «vittime bisognose», in nome delle
quali l'industria dell'Olocausto agisce, protestano che essa sta soltanto «perpetuando
l'espropriazione». In molti hanno intentato causa contro la Claims Conference.
L'Olocausto potrebbe ancora rivelarsi «il più grande ladrocinio nella storia
del genere umano». (92)
Lo storico Ilan Pappe riporta che quando, dopo la
guerra, Israele cominciò le trattative con la Germania per i risarcimenti, il
ministro degli Esteri Moshe Sharett propose di assegnarne una parte ai profughi
palestinesi «per riparare a quella che è stata definita la piccola ingiustizia
(la tragedia palestinese), provocata da quella più terribile (l'Olocausto)».
(93) Questa proposta non ebbe alcun seguito. Un importante studioso israeliano
ha suggerito di utilizzare una parte dei fondi provenienti dalle banche
svizzere e dalle società tedesche per «risarcire i profughi arabi palestinesi».
(94) Dal momento che la maggior parte dei sopravvissuti all'Olocausto nazista è
già morta, sembrerebbe una proposta sensata.
[187] Secondo il vecchio stile del Congresso
Mondiale Ebraico, il 13 marzo 2000 Israel Singer fece l'«annunciò
straordinario» che un documento americano appena reso pubblico rivelava che
l'Austria era in possesso di beni appartenuti a ebrei all'epoca dell'Olocausto
e privi di eredi il cui valore ammontava a circa dieci miliardi di dollari.
Singer sostenne anche che «il cinquanta per cento delle opere d'arte presenti
in America è stato rubato agli ebrei». (95) È evidente che l'industria
dell'Olocausto ha completamente perso la testa.
capitolo 3
Note
1. Henry
Friedlander, Darkness and Dawn in 1945. -
The Nazis, the Allies, and the Survivors, in US Holocaust Memorial Museum, 1945
- the Year of Liberation, Washington 1995, 11-35.
2. Si
veda, per esempio, Segev, Seventh Million,
248.
3. Lappin,
Man With Two Heads, 48. D.D.
Guttenplan, The Holocaust on Trial,
in «Atlantic Monthly», febbraio 2000, 62; ma si legga il testo di Lipstadt, in
cui l'autrice equipara il sollevare dubbi circa la testimonianza di un
sopravvissuto alla negazione dell'Olocausto.
4. Wiesel,
All Rivers, 121-30, 139, 163-64,
201-2, 336. «Jewish Week», 17 settembre 1999. «New York Times», 5 marzo 1997.
5. Leonard
Dinnerstein, America and the Survivors of
the Holocaust, New York 1982, 24.
6. Daniel
Ganzfried, Binjamin Wilkomirski und die
verwandelte Polin, in «Weltwoche», 4 novembre 1999.
7. Marilyn
B. Young, The Vietnam Wars, New York
1991, 301; Cohen: US Not Sorry for
Vietnam War, in «Associated Press», 11 marzo 2000.
8. Per
i retroscena, si vedano soprattutto Nana Sagi, German Reparations, New York 1986, e Ronald W Zweig, German Reparations and the Jewish World,
Boulder 1978. Entrambi i volumi sono ricostruzioni storiche ufficiali
commissionate dalla Claims Conference.
9. In
risposta a un'interrogazione recentemente fatta dal deputato tedesco Martin
Hohmann (CDU), il governo tedesco ha riconosciuto (pur tra mille giri di
parole) che solamente il quindici per cento del denaro versato alla Claims
Conference è davvero giunto alle vittime delle persecuzioni naziste. La replica
del governo tedesco prosegue dicendo che «l'accusa secondo cui
quattrocentocinquanta milioni di marchi sono stati "usati per uno scopo
diverso da quello previste" e "rifiutati"» alle vittime
dell'Olocausto non corrisponde quindi al vero». Si veda il verbale del
Bundestag tedesco,
quattordicesima legislatura, 23 febbraio 2000, 8277, risposta
dei segretario di Stato Diller all'interpellanza di Hohmann. Questa
rassicurazione può tuttavia essere conciliata con la ricostruzione storica
ufficiale della Jewish Claims Conference (cfr. n. 10).
10. Nella
sua ricostruzione storica ufficiale, Ronald Zweig ammette esplicitamente che la
Claims Conference violò i termini dell'accordo:
«L'afflusso di fondi della Claims Conference permise al Joint [Distribution
Committee] di proseguire in Europa programmi che altrimenti sarebbero stati
chiusi e di avviare programmi che altrimenti non sarebbero stati presi in
considerazione per mancanza di fondi. Ma il cambiamento più significativo nel
budget dell'JDC che dipese dal pagar mento dei risarcimenti furono le
assegnazioni di denaro nei Paesi musulmani, dove le attività del joint, durante
i primi tre anni di versamenti da parte della Claims Conference, registrarono
un aumento del sessantotto per cento. Nonostante le restrizioni formali all'uso
dei fondi di risarcimento nell'accordo con la Germania, i soldi vennero
impiegati là dove le necessità erano prioritarie. Moses Leavitt [funzionario
d'alto rango della Claims Conferencel [...] osservò: "I nostri criteri si
basavano sulle priorità dentro e fuori Israele, Paesi musulmani compresi [...]
Consideravamo i fondi della Claims Conference nient'altro che una parte di un
fondo generale stanziato a nostra disposizione per venire incontro alle
necessità degli ebrei nell'area di cui eravamo responsabili, l'area delle
priorità urgenti"». (German
Reparations, 74.)
11. Si
vedano, per esempio, Lorraine Adams, The
Reckoning, in «Washington Post
Magazine», 20 aprile 1997; Netty C. Gross, The Old Boys Club, in «Jerusalem
Report»,
15 marzo 1997 e 16 agosto 1997; Rebecca Spence, Holocaust Insurance Team Racking
Up Millions
in Expenses as Survivors Wait, in «Forward», 30 luglio 1999; Verena Dobnik,
Oscar Hammerstein's Cousin Sues German
Bank Over Holocaust Assets, in «AP Online», 20 novembre 1998 (Hertzberg).
12. Greg B. Smith, Federal
Judge OKs Holocaust Accord, in «Daily News», 7 gennaio
2000. Janny Scott, Jews Tell of Holocaust Deposits, in «New York Times», 17 ottobre
1996. Saul Kagan lesse una bozza di questa sezione sulla Claims Conference. La
versione finale accoglie tutte le sue correzioni relative ai dati.
13. Elli
Wohlgelernter, Lawyers and the Holocaust,
in «Jerusalem Post», 6 luglio 1999.
14. Per
lo scenario generale, si vedano Tom Bower, Nazi
Gold, New York 1998; Itamar Levin, The
Last Deposit, Westport (Connecticut) 1999; Gregg J. Rickman, Swiss Banks and Jewish Souls, New
Brunswick (NJ) 1999; Isabel Vincent, Hitler's
Silent Partners, New York 1997; Jean Ziegler, The Swiss, the Gold and the Dead, New York 1997. Per quanto viziati
da una pesante ostilità contro la Svizzera, questi libri contengono molte
informazioni utili.
15. Levin,
Last Deposit, capitoli 6 e 7. Per il
servizio giornalistico che contiene l'errore (il cui autore, benché non ne
fàccia parola, fu Levin), si veda Hans J. Halbheer, To Our American Friends, in American
Swiss Foundation Occasional Papers (senza data).
16. Negli
Stati Uniti operavano tredici filiali di sei banche svizzere. Nel 1994 le
banche svizzere prestarono a imprese amerícane trentotto miliardi di dollari e
gestirono centinaia di miliardi di dollari in investimenti in azioni e banche
americane per i loro clienti.
17. Nel
1992, il Congresso Mondiale Ebraico creò una nuova organizzazione, la World
Jewish Restitution Organization (WJR0), che rivendicò la giurisdizione legale
sui beni dei 192 sopravvissuti all'Olocausto, vivi e morti. Guidata da
Bronfman, la WJRO è l'organizzazione che riunisce altre organizzazioni
ebraiche, sul modello della Claims Conference.
18.
Udienze di fronte alla commissione sulle
attività bancarie, edilizie e urbanistiche, Senato degli Stati Uniti, 23 aprile
1996. La difesa degli «interessi ebraici» operata da Bronfman è altamente
selettiva. È un importante socio d'affari di Leo Kirch, un ultraconservatore
magnate tedesco dei media, noto in anni recenti per aver cercato di licenziare
un giornalista che si era schierato a favore di una decisione della Corte
Suprema contro la presenza delle croci cristiane nelle
aule delle scuole pubbliche.
(www.Seagram.comlcompany-infolhistory/inain.liti:ril;
Oliver Gelirs, Einfluss aus der Dose,
in «Tagesspiegel», 12 settembre 1995.)
19. Rickman,
Swiss Banks, 50-51. Bower, Nazi Gold, 299-300.
20. Bower,
Nazi Gold, 295 («portavoce»), 306-7;
cfr. 319. Alan Morris Schom, The
Unwanted Guests, Swiss Forced Labor Camps, 1940-1944, rapporto
preparato per il Centro Simon Wiesenthal, gennaio 1998. (Schom afferma che
erano «veri campi di lavoro schiavistico».) Levin, Last Deposit, 158, 188. Per un'indagine equilibrata sui campi per i
rifugiati in Svizzera, si vedano Ken Newman (a cura di), Swiss Wartime Camps: A Collection of Eyewitness Testimonies, 1940-1945,
Zurigo 1999, e a cura della
Commissione internazionale di esperti sulla Svizzera e
la Seconda guerra mondiale,
Switzerland and
Refugees in the Nazi Era, Berna 1999, capitolo 4.4.4. Saidel, Never Too
Late, 222-23 («alla
Disneyland», «sensazionalistico»). Yossi Elein Halevi, Who Owns the Memory?, in «Jerusalem Report», 25 febbraio 1993.
Wiesenthal concede l'uso del proprio nome al Centro per novantamila dollari
l'anno.
21. Bower,
Nazi Gold, XI, XV, 8, 9, 42, 44, 56,
84, 100, 150, 219, 304. Rickman, Swiss
Banks, 219.
22. Thomas
Sancton, A Painful History, in
«Time», 24 febbraio 1997. Udienze di fronte alla commissione sulle attività
bancarie e finanziarie, Camera dei rappresentanti, 25 giugno 1997. Bower, Nazi Gold, 301-2. Rickman, Swiss Banks, 48. Anche Levin tace il
fatto che Salmanovitz era ebreo (cfr. 5, 129,135).
23. Levin,
Last Deposit, 60. Udienze di fronte
alla commissione sulle attività bancarie e finanziarie, Camera dei rappresentanti,
11 dicembre 1996 (citando la testimonianza resa da Wiesel il 16 ottobre 1996
alla commissione sulle attività bancarie del Senato). Raul Hilberg, The Destruction of the European Jews,
New York 1961, capitolo 5.
24. Udienze
di fronte alla commissione sulle attività bancarie, edilizie e urbanistiche,
Senato degli Stati Uniti, 6 maggio 1997.
25. Udienze
di fronte alla commissione sulle attività bancarie e finanziarie, Camera dei
rappresentanti, 11 dicembre 1996. Smith si lamentò con la stampa che i
documenti che aveva scovato già da molto tempo fossero stati pubblicizzati da
D'Amato come nuove acquisizioni. In un bizzarro tentativo di difesa, Rickman,
che mobilitò un cospicuo contingente di ricercatori in tutti i musei
dell'Olocausto negli Stati Uniti per le udienze al Congresso, risponde: «Pur
sapendo del libro di Smith, ho deciso di non leggerlo in modo da non poter
essere accusato di usare documenti "suoi"» (113). Vincent, Silent Partners, 240.
26. Bower,
Nazi Gold, 307. Udienza di fronte
alla commissione sulle attività bancarie e finanziarie, Camera dei
rappresentanti, 25 giugno 1997.
27. Rickman,
Swiss Banks, 77. Per una trattazione
definitiva di questo argomento, si veda
Peter Hug e Marc Perrenoud, Assets in Switzerland of Victim of Nazism and the Compensation Agreements
with East Bloc Countries, Berna 1997. Per gli inizi della discussione negli
Stati Uniti, si veda Seymour J. Rubin e Abba E Schwartz, Refugees and Reparations, in «Law and Contemporary Problems», Duke
University School of Law 1951, 283.
28. Levin,
Last Deposit, 93, 186. Udienza di
fronte alla commissione sulle attività bancarie e finanziarie, Camera dei
rappresentanti, 11 dicembre 1996. Rickman, Swiss
Banks, 218. Bower, Nazi Gold,
318, 323. Una settimana dopo l'istituzione dei fondo speciale, il presidente
svizzero, «terrorizzato dall'incessante ostilità in America» (Bower), annunciò
la creazione di un fondo di solidarità dei valore di cinque miliardi di dollari
«per ridurre la povertà, la disperazione e la violenza» in tutto il pianeta.
L'approvazione del fondo richiese comunque un referendum nazionale e
l'opposizione interna venne rapidamente a galla. Il suo destino resta incerto.
29. La
class action, in base alla legislazione americana, è l'azione giudiziaria
condotta da uno o più avvocati a nome e nell'interesse di tutte le vittime di
una stessa azione delittuosa. [NAT.]
30. Bower,
Nazi Gold, 315. Vincent, Silent Partners, 211. Rickman, Swiss Banks, 184 (Volcker).
31. Levin,
Last Deposit, 187-88, 125.
32. Ivi,
218. Rickman, Swiss Banks, 214, 223,
221.
33. Rickman,
Swiss Banks, 231.
34. Ibid.
Rickman intitola appropriatamente questo capitolo della sua ricostruzione
«Boicottaggi e diktat».
35. Per
il testo completo del «Class Action Settlement Agreement», si veda commissione
indipendente di personalità illustri, Report
on Dormant Accounts of Victims of Nazi Persecution in Swiss Banks, Bema
1999, appendice O. Oltre ai duecento milioni di dollari di fondo speciale e al
miliardo e duecentocinquanta milioni di dollari per l'accordo sulla class
action, l'industria dell'Olocausto brigò per ottenere altri settanta milioni di
dollari dagli Stati Uniti e dai suoi alleati nel corso di un incontro avvenuto
nel 1997 a Londra sull'oro svizzero.
36.
Per la politica americana riguardo ai rifugiati
ebrei durante questi anni, si vedano, di David S. Wyman, Paper Walls, New York 198 5, e The
Abandonment of the Jews, New
York 1984. Per la politica svizzera, si veda la
commissione indipendente di esperti sulla
Svizzera e la Seconda guerra mondiale, Switzerland and Refugees in the Nazi Era,
Berna 1999. Una simile miscela di fattori (la crisi economica, la xenofobia,
l'antisemitismo e infine la sicurezza) influì sulle quote molto restrittive
americane e svizzere. Ricordando l'«ipocrisia nei discorsi delle altre nazioni,
specialmente gli Stati Uniti che non erano per nulla interessati a rendere più
liberali le loro leggi sull'immigrazione», la commissione, per quanto duramente
critica nei confronti della Svizzera, riporta che la sua politica verso i
rifugiati fuì «simile a quella dei governi di molti altri Stati» (42, 263). Non
vedo traccia di questo punto nel largo spazio dedicato dai mezzi di
comunicazione americani ai rilievi critici della commissione.
37. Udienza
di fronte alla commissione sulle attività bancarie, edilizie e urbanistiche,
Senato degli Stati Uniti, 15 maggio 1997 (Eizenstat e D'Amato). Udienza di
fronte alla commissione sulle attività bancarie, edilizie e urbanistiche,
Senato degli Stati Uniti, 23 aprile 1996 (Bronfman, citazione di Clinton e
lettera dei capigruppo del Congresso). Udienza di fronte alla commissione sulle
attività bancarie, edilizie e urbanistiche, Senato degli Stati Uniti, 11
dicembre 1996 (Leach). Udienza di fronte alla commissione sulle attività
bancarie, edilizie e urbanistiche, Senato degli Stati Uniti, 25 giugno 1997
(Leach). Rickman, Swiss Banks, 204
(Albright).
38.
La sola nota discordante durante le serie di
udienze del Congresso sul risarcimento per l'Olocausto venne dal membro del
Congresso Maxine Waters, della California. Nel dichiarare la sua adesione «al
mille per cento al progetto per fare giustizia per tutte le vittime
dell'Olocausto», Waters sollevò anche il problema di «come prendere questo
schema e usarlo per affrontare la questione del lavoro schiavistico dei miei
antenati qui negli Stati Uniti. È davvero strano che io sieda qui [...] senza
chiedermi che cosa potrei fare [...] per riconoscere il lavoro schiavistico
negli Stati Uniti [...] I risarcimenti alla comunità afroamericana sono stati
condannati senza indugio come udidea radicale e molti di coloro [...] che hanno
cercato tanto tenacemente di portare questa questione all'esame del Congresso
sono stati messi letteralmente in ridicolo». Nel caso specifico, Waters propose
che alle agenzie governative che avevano l'ordine di ottenere il risarcimento
per l'Olocausto venisse ordinato di ottenere il risarcimento anche per il
«lavoro schiavistico in patria». «La gentile signora solleva un argomento di
straordinaria profondità» replicò James Leach, della commissione sulle attività
bancarie della Camera «e la presidenza lo prenderà in considerazione [...] La
profondità della questione che lei solleva nello scenario storico americano,
come anche in quello dei diritti umani, è notevole.» La questione sarà stata
senza dubbio depositata nel profondo del dimenticatoio della commissione sulle
attività bancarie della Camera. (Udienza di fronte alla commissione sulle
attività bancarie, edilizie e urbanistiche, Senato degli Stati Uniti, 9
febbraio 2000.) Randall Robinson, che sta al momento guidando una campagna per
risarcire gli afroamericani per la schiavitù, ha contrapposto il «silenzio» del
governo americano su questo furto «perfino quando il sottosegretario di Stato
americano, Stuart Eizenstat, si è impegnato per fare in modo che sedici aziende
tedesche risarcissero gli ebrei impiegati come schiavi sotto il nazismo».
(Randall Robinson, Compensate the
Forgotten Victims of
America'
Slavery Holocaust, in «Los Angeles Times», 11 febbraio 2000; cfr. Randall
Robinson, The Debt, New York 2000,
245 .)
39.
Philip Lentz, Reparation Woes, in «Crain's», 15-21 novembre 1999. Michael
Shapiro, Lawyers in Swiss Bank Settlement
Submitt Bill, Outraging jewisb Groups, in «Jewish
Telegraphic Agency», 23 novembre 1999. Rebecca Spence,
Hearings on Legal Fees in
Swiss Bank Case, in «Forward», 26 novembre 1999. James Bone, Holocaust Survivors Protest Over Legal Fee,
in «The Times» (Londra), 1· dicembre 1999. David Barrett,
Holocaust
Assets, in «New York Post», 2 dicembre 1999. Stewart Ain, Religious Strife Erupts In Swiss Money Fight,
in «Jewish Week», 14 gennaio 2000 («mettere le mani»). Adam Dickter, Discord in the Court, in «Jewish Week»,
21 gennaio 2000. Fondo svizzero per le vittime bisognose dell'Olocausto/Shoah, Overview on Finances, Payments and Pending
Applications, 30 novembre 1999. I sopravvissuti all'Olocausto residenti in
Israele non hanno mai ricevuto nulla dei denaro del fondo speciale loro
destinato, si veda Yair Sheleg, Surviving
Israeli Bureaucracy, in «Haaretz», 6 febbraio 2000.
40. Burt
Neuborne, Totaling the Sum of Swiss Guilt,
in «New York Times», 24 giugno 1998. Udienza di fronte alla commissione sulle
attività bancarie e finanziarie, Camera dei rappresentanti, 11 dicembre 1996. Holocaust-Konferenz in Stockholm, in
«Frankfurter Allgemeine Zeitung», 26 gennaio 2000 (Bronfman).
41. Commissione indipendente di esperti
sulla Svizzera e la Seconda guerra mondiale, Switzerland and Gold Transactions in the Second World War, Interim
Report, Berna 1998.
42. Udienza
di fronte alla commissione sulle attività bancarie e finanziarie, Camera dei
rappresentanti, 11 dicembre 1996. Chiamato a deporre come testimone esperto, lo
storico Gerhard L. Weinberg, della University of North Carolina, dichiarò
ipocritamente: «La posizione del governo svizzero durante la guerra e nel
periodo immediatamente successivo da sempre di considerare legale il
saccheggio». Disse anche che «la priorità assoluta» per le banche svizzere era
«fare quanti più soldi possibile [...] e senza stare a guardare cose come la
legalità, la moralità, la decenza o altro». (Udienza di fronte alla commissione
sulle attività bancarie e finanziarie, Camera dei rappresentanti, 25 giugno
1997.)
43. Raymond
W Baker, The Biggest Loophole in the
Free-Market System in «Washington Quarterly», autunno 1999. Benché senza
l'avallo della legge americana, gran parte di una cifra oscillante tra i
cinquecento e i mille miliardi di dollari annualmente «riciclati», provenienti
dal traffico di droga, è anch'essa «ben al sicuro nei depositi delle banche
americane».
44. Ziegler,
The Swiss, XII; cfr. 19, 265.
45. Switzerland and Gold Transactions in the
Second World War, iv, 48.
46. Commissione indipendente di personalità
illustri, Report on Dormant Accounts of
Victims of Nazi Persecution in Swiss Banks, Berna 1999; da qui in poi
abbreviato in Report.
47. I
«costi esterni» della verifica furono stimati in duecento milioni di dollari
(Report, pagina 4, paragrafo 17). Il costo per le banche svizzere ammontò a
circa trecento milioni di dollari (commissione federale svizzera sull'attività
bancaria, comunicato stampa, 6 dicembre 1999).
48. Report, allegato 5, pagina 81, paragrafo
1 (cfr. parte prima, pagine 13-15, paragrafi 41-49).
49. Report, parte prima, pagina 6, paragrafo
22 («alcuna prova»); parte prima, pagina 6, paragrafo 23 (leggi bancarie e
percentuale); allegato 4, pagina 58, paragrafo 5 «davvero straordinaria») e
allegato 5, pagina 81, paragrafo 3 («degna di nota») (cfr. parte prima, pagina
15, paragrafo 47; parte prima, pagina 17, paragrafo 58; allegato 7, pagina 107,
paragrafi 3 e 9).
50. The Deceptions of Swiss Banks, in «New
York Tímes», 7 dicembre 1999.
51. Report, allegato 5, pagina 81, paragrafo
2. Report, allegato 5, pagina 87-88, paragrafo 27: «Si possono dare molte
spiegazioni riguardo alla stima, notevolmente errata per difetto, fornita nel
corso delle prime investigazioni, ma alcune delle cause principali possono
essere attribuite all'uso della definizione in senso stretto del termine conti
"inattivi"; l'esclusione di certi tipi di conto dalle loro ricerche,
oppure ricerche inadeguate; il loro errore nel verificare conti sotto un
determinato saldo minimo; oppure il loro errore nel non considerare certi
titolari di conto come vittime della violenza o delle persecuzioni del nazismo
nonostante i loro parenti lo avessero sostenuto presso le banche».
52. Report, pagina 10, paragrafo 30
«probabile o possibile»); pagina 20, paragrafo 73-75
(probabilità significativa riguardante
venticinquemila conti). Report,
allegato 4, pagine 65-67, paragrafi 20-26, e pagina 72, paragrafi 40-43 (valori
correnti). Seguendo le raccomandazioni della Relazione, la commissione federale
svizzera sull'attività bancaria acconsentì, nel marzo 2000, a pubblicare i nomi
dei titolari dei venticinquemila conti. (Swiss
Federal Banking Commission Follows Volcker Recommendations, comunicato
stampa, 30 marzo 2000.)
53. Udienza
di fronte alla commissione sulle attività bancarie e finanziarie, Camera dei
rappresentanti, 9 febbraio 2000 (citazione dalla testimonianza scritta di
Volcker). Si confrontino gli avvisi della commissione federale svizzera
sull'attività bancaria che «tutte le indicazioni sul possibile valore corrente
dei conti identificati si basano in sostanza su presupposizioni e su
proiezioni» e che «solamente nel caso di circa mìlleduecento conti [...] è
possibile [sic] trovare una prova reale, suffragata da documenti dell'epoca
interni alla banca, del fàtto che i titolari del conto fossero davvero vittime
dell'Olocausto» (comunicato stampa, 6 dicembre 1999).
54. Report, pagina 2, paragrafo 8 (cfr.
pagina 23, paragrafo 92). Report,
allegato S, pagine A- 134; per un'analisi più precisa, cfr. pagine A- 135 e
seguenti.
55. Udienza
di fronte alla commissione sulle attività bancarie e finanziarie, Camera dei
rappresentanti, 25 giugno 1997 (citazione dalla testimonianza scritta di
Rubin). Per il contesto, si veda Seymour J. Rubin e Abba P Schwartz, Refugees and Reparations, in «Law and
Contemporary Problems», Duke University School of Law 1951, 286-89.
56. Udienza
di fronte alla commissione sulle attività bancarie e finanziarie, Camera dei
rappresentanti, 25 giugno 1997 (citazione dal manoscritto della testimonianza
di Rubin). Ulteriori informazioni sui retroscena sono reperibili in Seymour J.
Rubin e Abba B. Schwartz, Refugees and
Reparations, in «Law and Contemporary Problems», Duke University School of
Law, 1951, 286-89.
57. Nel
«periodo attinente» del 1933-45, la Svizzera aveva una popolazione di circa
quattro milioni di persone, mentre gli Stati Uniti superavano i centotrenta
milioni. Ogni conto svizzero aperto, attivo o inattivo che fosse durante quegli
anni, fu analizzato dalla commissione presieduta da Volcker.
58. Levin,
Last Deposit, 23. Bower, Nazi Gold, 256. Bower definisce la
richiesta svizzera «retorica senza spazi di risposta». Nessun dubbio che non vi
siano risposte, ma perché retorica?
59. Rickman,
Swiss Banks, 194-95.
60.
Bower, Nazi
Gold, 350-51. Akiva Eldar, UK: Israel
Didn't Hand Over Compensation to Survivors, in «Haaretz», 21 febbraio 2000.
Judy Dempsey, Jews Find It Hard to
Reclaim Wartime Property in Israel, in «Financial Times», 1· aprile 2000.
Jack
Katzenell, Israel
Has WWII Assets, in «Associated Press», 13 aprile 2000. Joel Greenberg, Hunt for Holocaust Victims'Property Turns in
New Direction: Toward Israel, in «New York Times», 15 aprile 2000. Akiva
Eldar, People and Politics, in
«Haaretz», 27 aprile 2000.
61. Per
informazioni sulla commissione, è possibile consultare www.pcha.gov (la
citazione di Bronfman è tratta da un comunicato stampa del 21 novembre 1999).
62. Udienza
di fronte alla commissione sulle attività bancarie e finanziarie, Camera dei
rappresentanti, 9 febbraio 2000.
63. Levin,
Last Deposit, 223, 204. Swiss Defensive
About WWII Role, in «Associated Press», 15 marzo 2000. «Time», 24 febbraio
1997 (Bronfman).
64. Levin,
Last Deposit, 224.
65. Udienza
di fronte alla commissione sulle attività bancarie e finanziarie, Camera dei
rappresentanti, 14 settembre 1999.
66.
Yair Sheleg, Not
Even Minimum Wage, in «Haaretz», 6 ottobre 1999. William Drozdiak, Germans Up Offer to Auschwitz Slave Laborers,
in «Washington Post», 18 novembre 1999. Burt Herman, Auschwitz Labor Talks End Without Pact, in «Forward», 20 novembre
1999. Bayer's Biggest Headache, in
«New York Times», 5 ottobre 1999.
Jan Cienski, Wartime
Slave-Labour Survivor'Ads Hit Back, in «National Post», 7 ottobre
1999. Edmund L. Andrews, Germans To Set Up $5. 1 Billion Fund For Nazis'Slaves, in «New York
Times», 15 dicembre 1999. Edmund L. Andrews, Germany Accepts $5. 1 billion Accord to End Claims of Nazi Slave
Workers, in «New York Times», 18 dicembre 1999. Allan Hall, Slave Labour List Names 255 German
Companies, in «The Times», Londra, 9 dicembre 1999. Udienza di fronte alla
commissione sulle attività bancarie e finanziaríe, Camera dei rappresentanti, 9
febbraio 2000 (citate dalla testimonianza scritta di Eizenstat).
67. Sagi,
German Reparations, 161.
Presumibilmente circa un quarto dei lavoratori forzati ebrei ricevette questo
vitalizio, e tra questi anche il mio defunto padre (prigioniero ad Auschwitz).
Di fatto, la richiesta avanzata dalla Claims Conference negli attuali negoziati
per gli internati ebrei nei campi di lavoro ancora in vita è calcolata sulla
base di coloro che stanno già percependo una pensione e un indennizzo dalla
Germania! (Parlamento tedesco, 92a sessione, 15 marzo 2000.)
68. Zweig,
German Reparations and the Jewish World 98; cfr. 25.
69. Conference
on Jewish Material Claims Against Germany, Position
Paper - Slave Labor Proposed Remembrance and Responsability Fund, 15 giugno
1999. Netty C.
Gross, $5.1Billion
Slave Labor Deal Could Yield Little Cash For Jewish Claimants, in
«Jerusalem Report», 31 gennaio 2000. Zvi Lavi, Kleiner (Herut).- Germany Claims
Conference
Has Become Judenrat, Carring on Nazi Ways, in «Globes», 24 febbraio 2000.
Yair Sheleg, MK Kleiner. The Claims
Conference Does Not Transfer Indemnifications to Shoah Survivors, in
«Haaretz», 24 febbraio 2000.
70. Udienza
di fronte alla commissione sulle attività bancarie e finanziarie, Camera dei
rappresentanti, 9 febbraio 2000. Yair Sheleg, Staking a Claim to Jewish Claims, in «Haaretz», 31 marzo 2000.
71. Henry
Friedlander, Darkness and Dawn in
1945-The Nazis, the Allies, and the Survivors, in US Holocaust Memorial
Museum, 1945 - The year ofLiberation,
Washington 1995, 11-35. Dinnerstein, America and the Survivors of the Holocaust,
28. Lo storico israeliano Shlomo Shafir riporta che «le stime sugli ebrei
sopravvissuti alla fine della guerra in Europa variano dalle cinquantamila alle
settantamila. persone» (Ambiguous
Relations, 384 n1). La stima totale elaborata da Friedlander per i
sopravvissuti ai campi di lavoro, ebrei e non ebrei, è nella norma; si veda
Benjamin Ferencz, Less Than Slaves,
Cambridge 1979: «Nei campi che furono liberati dagli eserciti degli alleati
furono trovate approssimativamente mezzo milione di persone, più o meno vive»
(XVII; cfr. 240n5).
72. Stuart
Eizenstat, sottosegretario di Stato all'Economia, agli Affari e
all'Agricoltura, capo della delegazione americana alle negoziazioni sui campi
di lavoro in Germania, Briefing al Dipartimento di Stato, 12 maggio 1999.
73. Si
vedano le «osservazioni» di Eizenstat al meeting annuale della Conference on
Jewish Material Claims Against Germany and Austria, New York, 14 luglio 1999.
74. Toby
Axelrod, $5.2 Billion Slave-Labor Deal
Only the Start, in «Jewish Bullettin», 12 dicembre 1999, citando la Jewish
Telegraphic Agency.
75. Hilberg,
The Destruction, 1985, III volume,
appendice B.
76. In
un'intervista rilasciata alla «Berliner Zeitung», citando Friedlander, espressi
dubbi circa la cifra di centotrentacinquemila ex deportati dichiarata dalla
Claims Conference. Nella sua secca replica, la Claims Conference sostenne che
il computo di centotrentacinquemila persone era «basato sulle fonti migliori e
più attendibili e di conseguenza è corretto». Nessuna di queste supposte fonti
è stata comunque identificata. (Die Ausbeutung jüdischen Leidens, in «Berliner
Zeitung», 29-30 gennaio 2000;
Gegendarstellung
der Jewish Claims Conference, in «Berliner Zeitung», 10 febbraio
2000.) In risposta alle mie critiche, in
un'intervista al «Tagesspiegel», la Claims Conference sostenne che alla guerra
erano sopravvissuti settecentomila ebrei deportati nei campi di lavoro,
trecentocinquanta o quattrocentomila dei quali nel territorio del Reich e
trecentomila in campi di concentramento in altri Paesi. Quando le venne
richiesto di presentare fonti scientifiche, la Claims Conference, indignata,
rifiutò. Basti dire che queste cifre non trovano riscontro in alcuno studio
scientifico sull'argomento. (Eva Schweitzer, Entschaedigung für Zwangsarbeiter, in «Tagesspiegel», 6 marzo
2000.)
77.
«Mai prima nel corso della storia» ha osservato
Hilberg «le persone erano state uccise secondo procedure da catena di
montaggio» (Destruction, III volume,
863). L'interpretazione classica di questo punto si legge in Modernity of the Holocaust, di Zygmunt
Bauman.
78.
Guttenplan, Holocaust
on Trial. (Hilberg) Conference on Jewish Material Claims Against Germany, Position Paper - Slave - Labor, 15
giugno 1999.
79.
We Condemn
Syria's Denial of the Holocaust, in « New York Times», 9 febbraio 2000. Per
documentare «l'aumento dell'antisemitismo» in Europa, David Harris, dell'AJC,
sottolineò che l'affermazione «gli ebrei stanno sfruttando il ricordo dello
sterminio nazista degli ebrei per i loro scopi» era condivisa da molti. Fece
poi riferimento al «modo estremamente negativo in cui alcuni giornali tedeschi
trattarono la Claims Conference [...] durante i negoziati per i risarcimenti
per il lavoro schiavistico e per quello forzato. Molti articoli dipinsero la
stessa Claims Conference e la maggior parte degli avvocati ebrei come avidi ed
egoisti, e sui principali quotidiani nacque una bizzarra discussione sul fatto
che potessero esistere tanti ebrei sopravvissuti quanti sosteneva la Claims
Conference». (Udienza di fronte alla commissione affari esteri, Senato degli
Stati
Uniti, 5 aprile 2000.) In realtà, mi è stato quasi
impossibile sollevare questa questione in
Germania. Nonostante il tabù sia stato infranto dal
quotidiano progressista tedesco «Die Berliner Zeitung», il coraggio dimostrato
del suo direttore, Martin Süskind, e dal corrispondente dagli Stati Uniti,
Stefan Elfenbein, hanno avuto tra i mezzi d'informazione tedeschi scarsa eco,
in gran parte dovuta alle minacce legali e al ricatto morale della Claims
Conference, ma anche a causa, in linea di massima, della riluttanza dei
tedeschi a criticare apertamente gli ebrei.
80.
Udienza di fronte alla commissione sulle
attività bancarie e finanziarie, Camera dei rappresentanti, 11 dicembre 1996.
J.D. Bindenagel (a cura di), Proceedings,
Washington Conference on Holocaust-Era
Assets. 30 November-3 December 1998, US Government Printing Office,
Washington DC, 700-1,706.
81.
Udienza di fronte alla commissione sulle
relazioni internazionali, Camera dei rappresentanti, 6 agosto 1998. Bindenagel,
Washington Conference on Holocaust-Era
Assets, 433.
Joan Gralia, Poland Tries to Get
Holocaust Lawsuit Dismissed, in «Reuters»,
23 dicembre 1999. Eric J. Greenberg, Polish Restitution Plan Slammed, in «Jewish Weekly, 14 gennaio
2000. Poland Limits WWII Compensation
Plan, in «Newsday», 6 gennaio 2000.
82.
Theo Garb
e altri contro la Repubblica di Polonia, Corte distrettuale degli Stati
Uniti, Eastern District di New York, 18 giugno 1999. (La class action fu intentata da Edward E.
Klein e Mel Urbach, quest'ultimo un veterano degli
accordi con la Svizzera e la Germania. Una «querela emendata» emessa il 2 marzo
2000 fu controfirmata da molti più avvocati, ma omette alcune delle accuse più
pittoresche contro i governi della Polonia postbellica.) Dear Leads NYC Council in Call to Polish Govemment to Make Restitution
to Victims Of Holocaust Era Property Seizure, in «News From Council Member
Noach Dear», 29 novembre 1999. (La citazione testuale è tratta dalla
risoluzione effettiva, adottata il 23 novembre 1999.) [Antbony D.] Weiner Urges Polish Government To Repatriate Holocaust
Claims, Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti (comunicato stampa, 14
ottobre 1999). (Le citazioni testuali sono tratte dal comunicato stampa e dalla
lettera, datata 13 ottobre 1999.)
83. Udienza
di fronte alla commissione sulle attività bancarie, edilizie e urbanistiche,
Senato degli Stati Uniti, 23 aprile 1996.
84. Udienza
di fronte alla commissione sulle relazioni internazionali, Camera dei
rappresentanti, 6 agosto 1998.
85. Udienza
di fronte alla commissione sulle relazioni internazionali, Camera dei
rappresentanti, 6 agosto 1998. Isabel Vincent, Who Will Reap the Nazi-Era Reparations?, in «National Post», 20
febbraio 1999.
86. Udienza
di fronte alla commissione sulle relazioni internazionali, Camera dei
rappresentanti, 6 agosto 1998. Attualmente vicepresidente onorario dell'American
Jewish Committee, Eizenstat fu il primo presidente dell'Institute on American
Jewish-Israeli Relations, filiazione dell'AJC.
87. Udienza
di fronte alla commissione sulle relazioni internazionali, Camera dei
rappresentanti, 6 agosto 1998. Marilyn Henry, Whose Claim Is It Anyway?, in «Jerusalem Post», 4 luglio 1997.
Bindenagel, Washington Conference on
Holocaust Era Assets, 705. Editoriale, Jewish
Property Belongs to Jews, in «Haaretz», 26 ottobre 1999.
88. Sergio
Karas, Unsettled Accounts, in «Globe and
Mail», 1· settembre 1998. Stuart
Eizenstat, Remarks,
Conference on Jewish Material Claims Against Germany and Austria Annual
Meeting, New York, 14 luglio 1999. Tom Sawicki, 6,000 witnesses, in «Jerusalem Post», 5 maggio 1994.
89. Bindenagel,
Washington Conference on Holocaust-Era
Assets, 146. Michael Arnold,
Israeli Teens
Frolic With Strippers After Auschwitz Visit, in «Forward», 26 novembre
1999. Il membro dei Congresso Carolyn Maloney, di Manhattan, informò con
orgoglio la commissione sulle attività bancarie della Camera di un progetto di
legge che aveva presentato, l'Holocaust Education Act, che «procurerà,
attraverso il Dipartimento 210 dell'Educazione, finanziamenti alle
organizzazioni che si occupano dell'Olocausto per corsi di formazione per gli insegnanti
e fornirà materiali a scuole e comunità che si dedichino all'approfondimento
dell'educazione all'Olocausto». Rappresentando una città con un sistema di
scuole pubbliche che notoriamente scarseggia di insegnanti e libri di testo,
Maloney avrebbe potuto porre priorità diverse per l'utilizzo degli scarsi fondi
del Dipartimento dell'Educazione. (Udienza di fronte alla commissione sulle
attività bancarie e finanziarie, Camera dei rappresentanti, 9 febbraio 2000.)
90. Zweig,
German Reparations and the Jewish World,
118. Goldmann fu il fondatore del Congresso Mondiale Ebraico e il primo
presidente della Claims Conference.
91. Marilyn
Henry, International Holocaust Education
Conference Begins, in «Jerusalem Post», 26 gennaio 2000. Marilyn Henry, PM.
We Have No Moral Obligation to Refugees,
in «Jerusalem Post», 27 gennaio 2000. Marilyn Henry, Holocaust «Must Be Seared in Collective Memory», in «Jerusalem
Post», 30 gennaio 2000.
92. Claims
Conference, Guide to Compensation and Restitution of Holocaust Survivors, New York,
senza data. Vincent, Hitler's Silent
Partners, 302. («espropriazione»); cfr. 308-309. Ralf Eibl, Jewish Claims Conference ringt um ihren
Leumund Nachkommen jüdischer Sklaven, in «Die Welt», 8 marzo 2000 (cause
intentate). L'industria dei risarcimenti dell'Olocausto è un argomento tabù
negli Stati Uniti. Il sito web sull'Olocausto (www2.h-net.mm.edu), per esempio,
impedì la circolazione di messaggi critici anche se pienamente sostenuti da
prove documentarie (corrispondenza personale con il membro del Consiglio
Richard S. Ley, 19-21 novembre 1999). Per la citazione sul «più grande
ladrocinio nella storia del genere umano», cfr. pagina 111.
93. Ilan
Pappe, The Making of the Arab-IsraeIi
Conflict, 1947-51, Londra 1992, 268.
94. Clinton
Bailey, Holocaust Funds to Palestinians
May Meet Some Cost of Compensation, in «International Herald Tribune»,
riapparso in «Jordan Times», 20 giugno 1999.
95. Elli
Wohlgelemter, WJG: Austria Holding $ 10b.
In Holocaust Victims'Assets, in
«Jerusalem Post», 14 marzo 2000. Singer, nella sua
successiva testimonianza al Congresso, diede risalto all'accusa contro
l'Austria ma - come suo solito - mantenne un silenzio discreto sulle accuse
contro gli Stati Uniti. (Udienza di fronte alla commissione affari esteri,
Senato degli Stati Uniti, 6 aprile 2000.)
CONCLUSIONE
Resta da esaminare l'impatto che l'Olocausto ha
avuto negli Stati Uniti. Nel farlo, mi avvarrò anche delle osservazioni
critiche di Peter Novick.
Oltre alle commemorazioni dell'Olocausto, almeno
diciassette Stati hanno istituito o proposto programmi di studio
sull'argomento, e numerosi college e università hanno finanziato cattedre in
questa materia. Difficilmente passa una settimana senza che sul «New York
Times» compaia un articolo importante che ne parli. Il numero di ricerche
accademiche dedicate alla Soluzione Finale nazista viene prudentemente stimato
oltre le diecimila. Lo si confronti con ciò che si conosce dell'ecatombe in
Congo. Tra il 1891 e il 1911, circa dieci milioni di africani morirono nel
corso dello sfruttamento da parte dell'Europa delle risorse congolesi di avorio
e di caucciù. Eppure il primo e unico studio in lingua inglese interamente
dedicato a questo argomento fu pubblicato solo nel 1998. (1)
[216] Dato
il vasto numero di istituzioni e di professionisti che si sono dedicati a
conservarne la memoria, oggi l'Olocausto è fortemente radicato nella vita
americana. Novick, tuttavia, nutre qualche dubbio sul fatto che questa sia una
cosa positiva. Prima di tutto, porta numerosi esempi di come venga banalizzato.
In verità, risulta difficile nominare anche una sola causa politica - che si
tratti di un movimento per la vita o a favore della libertà di scelta, dei
diritti degli animali o degli Stati - che non faccia ricorso all'Olocausto.
Condannando gli scopi dozzinali per cui questo evento viene utilizzato, Elie
Wiesel ha dichiarato: «Giuro di evitare [...] spettacoli volgari». (2)
Eppure Novick riferisce che «la più fantasiosa e
sottile operazione dì sfruttamento dell'immagine dell'Olocausto si verificò nel
1996, quando Hillary Clinton, allora sotto un fuoco incrociato per varie accuse
mosse contro di lei, apparve nel corridoio della Casa Bianca, mentre suo marito
teneva il discorso (ripreso da tutte le televisioni) sullo stato dell'Unione,
con a fianco sua figlia Chelsea ed Elie Wiesel». (3)
Secondo lei i rifugiati del Kosovo costretti
all'esodo dai serbi durante i bombardamenti della Nato richiamavano alla mente
scene dell'Olocausto rappresentate in Schindler's
List. «Quelli che imparano la storia dai film di Spielberg» commentò
sarcasticamente un dissidente serbo «non dovrebbero venirci a dire come vivere
la nostra vita.» (4)
[217] La
«Pretesa che l'Olocausto faccia parte della memoria americana», sostiene più
avanti Novick, è un alibi morale. «Fa sì che si eviti di assumersi quelle
responsabilità che davvero spettano
agli americani nel momento, in cui affrontano il proprio passato, il proprio
presente e il proprio futuro» (5) (il corsivo è nell'originale). Questo è un
punto fondamentale. È molto più facile deplorare i crimini commessi dagli altri
piuttosto che i nostri. È anche vero, comunque, che se lo volessimo potremmo
imparare molto su noi stessi dall'esperienza nazista. La dottrina del Destino
Manifesto ha anticipato quasi tutti gli elementi dogmatici e programmatici
della politica del Lebensraum di
Hitler. Di fatto, Hitler modellò la sua conquista dell'Oriente sulla conquista
americana del West. (6)
Nella prima metà del Ventesimo secolo un cospicuo numero di
Stati americani approvò leggi sulla sterilizzazione e decine di migliaia di
americani furono sterilizzati contro il loro volere. Quando promulgarono le
leggi sulla sterilizzazione, i nazisti fecero esplicitamente riferimento al
precedente americano. (7)
Le famigerate leggi di Norimberga privarono gli
ebrei del diritto di voto e proibirono le unioni miste tra ebrei e non ebrei.
Negli Stati del Sud, i neri subirono le stesse discriminazioni legali e furono
oggetto di una violenza popolare molto più spontanea e tollerata di quella che
dovettero affrontare gli ebrei in Germania prima della guerra. (8)
[218] Per
mettere in risalto i crimini che si compiono all'estero, gli Stati Uniti
ricorrono spesso alla memoria dell'Olocausto. È però significativo osservare quando gli Stati Uniti chiamano in causa
l'Olocausto. Crimini compiuti da nemici ufficiali come il bagno di sangue dei
khmer rossi in Cambogia, l'invasione sovietica dell'Afghanistan, l'invasione
irachena del Kuwait e la pulizia etnica dei serbi in Kosovo rievocano
l'Olocausto; i crimini in cui sono implicati gli Stati Uniti no.
Proprio mentre venivano svelate le atrocità dei
khmer rossi in Cambogia, il governo indonesiano appoggiato dagli Stati Uniti
stava massacrando un terzo della popolazione di Timor Est. Eppure, diversamente
da quello cambogiano, il genocidio di Timor Est non si guadagnò il paragone con
l'Olocausto e non meritò neppure l'attenzione dei giornali. (9)
Proprio quando l'Unione Sovietica
commetteva, secondo la definizione del Centro Simon Wiesenthal, un «altro
genocidio» in Afghanistan, il regime del Guatemala appoggiato dagli Stati Uniti
perpetrava quello che la Commissione guatemalteca per la Verità ha recentemente
definito un «genocidio» contro la popolazione indigena maya. Il presidente
Reagan respinse le accuse contro il governo
guatemalteco liquidandole come «infondate». Per onorare i risultati ottenuti da
Jeane Kirkpatrick nel difendere l'amministrazione Reagan dalle accuse dei
crimini che venivano alla luce in America Centrale, il Centro [219] Simon
Wiesenthal la ricompensò con il premio Humanitarian of the Year. (10)
Prima della cerimonia di premiazione, in molti
pregarono in forma privata Simon Wiesenthal di riconsiderare la decisione. Lui
rifiutò. Chiesero con insistenza in forma privata a Elie Wiesel di intercedere
presso il governo israeliano, uno dei principali fornitori di armi ai macellai
guatemaltechi. Anche lui rifiutò. L'amministrazione Carter rievocò il ricordo
dell'Olocausto quando cercò una sistemazione per i boat-people vietnamiti in fuga dal regime comunista.
L'amministrazione Clinton si dimenticò dell'Olocausto quando costrinse i boat-people haitiani, in fuga dagli
squadroni della morte appoggiati dagli Stati Uniti, a tornare indietro. (11)
Il ricordo dell'Olocausto fu invocato quando ebbero
inizio, nella primavera del 1999, i bombardamenti Nato, guidati dagli Stati
Uniti, sulla Serbia. Come si è visto, Daniel Goldhagen paragonò i crimini serbi
contro il Kosovo alla soluzione finale e, su invito del presidente Clinton,
Elie Wiesel si recò nei campi profughi kosovari in Macedonia e in Albania. Ma
prima che Wiesel andasse a versare lacrime a comando per i kosovari, il regime
indonesiano appoggiato dagli Stati Uniti aveva perpetrato nuovi massacri a
Timor Est, riprendendo dal punto in cui si era fermato alla fine degli anni
Settanta. L'Olocausto però svanì dalla memoria quando l'amministrazione Clinton
chiuse un occhio [220] sulla carneficina. «L'Indonesia conta» spiegò un
diplomatico occidentale «Timor Est no». (12)
Novick sottolinea che, pur nella diversità, la
complicità passiva dell'America nelle tragedie dell'umanità è comparabile, come
portata, all'Olocausto nazista. Ricordando, per esempio, il milione di bambini
uccisi nella Soluzione Finale, osserva che i presidenti americani fanno poco
più che esprimere pietà di fronte al fatto che, in tutto il mondo, ogni anno un
numero di bambini che supera ampiamente quella cifra «muore di malnutrizione o
di malattie che potrebbero essere curate». (13)
Si potrebbe anche prendere in considerazione un caso
pertinente di complicità attiva dell'America. Dopo che la coalizione guidata
dagli Stati Uniti ebbe devastato l'Iraq nel 1991 per punire «Saddam-Hitler»,
gli Stati Uniti e la Gran Bretagna imposero brutali sanzioni Onu a quello
sfortunato Paese nel tentativo di deporre il dittatore. Come nell'Olocausto
nazista, è probabile che sia morto un milione di bambini (14). Interrogata da
una televisione nazionale sul terribile tributo di morte versato dall'Iraq, il
segretario di Stato Madeleine Albright rispose: «È il prezzo da pagare».
«Il carattere estremo dell'Olocausto» sostiene
Novick «inficia seriamente la sua capacità di fornire un insegnamento
applicabile alla nostra vita quotidiana.» In quanto «paradigma di oppressione e
atrocità» tende a «banalizzare crimini di portata inferiore» (15). Eppure [221]
l'Olocausto nazista può anche renderci più sensibili nei confronti di queste
ingiustizie. Visto attraverso le lenti di Auschwitz ciò che prima veniva dato
per scontato - per esempio il fanatismo - non può più esserlo. (16) In effetti,
fu l'Olocausto nazista a screditare il razzismo scientifico che aveva tanto
pervaso la vita intellettuale americana prima della Seconda guerra mondiale.
(17)
Per coloro che si dedicano al progresso
dell'umanità, l'esistenza di un male come pietra di paragone non soltanto non
impedisce, ma addirittura invita al confronto. La schiavitù ha occupato
nell'universo morale del tardo diciannovesimo secolo grosso modo lo stesso
posto che l'Olocausto nazista ha oggi. Di conseguenza fu spesso chiamata a
gettare luce su mali ancora non pienamente definiti. John Stuart Mill paragonò
alla schiavitù la condizione delle donne in quella veneratissima istituzione
vittoriana che era la famiglia. Osò addirittura affermare che, per certi
aspetti fondamentali, era peggiore. «Sono ben lungi dal sostenere che in generale
le mogli non siano trattate meglio degli schiavi; ma nessuno schiavo è schiavo
così a lungo e in un senso così pieno dei termine quanto una moglie.» (18)
Soltanto coloro che usano un male esemplare non come bussola morale ma come
randello ideologico indietreggiano di fronte a simili analogie. «Non fare
paragoni» è il mantra dei ricattatori morali. (19)
[222] L'ebraismo
americano ha sfruttato l'Olocausto nazista per sviare le critiche da Israele e
dalla sua politica moralmente indifendibile. Il perseguimento di questa
politica ha portato Israele e l'ebraismo americano ad assumere posizioni
strutturalmente congruenti: A destino di entrambi è appeso a un filo sottile
che fà capo alle élite del potere americano. Se queste élite decidessero che
Israele è di peso o che l'ebraismo americano è sacrificabile, A filo potrebbe
essere reciso. Non c'è dubbio che si tratti di una semplice congettura, forse
eccessivamente allarmistica, forse no.
Comunque, è facilissimo pronosticare la posizione
delle élite ebraiche americane nel caso in cui questa eventualità si
verificasse. Se Israele uscisse dalle grazie degli Stati Uniti, molti di quei
leader che ora difendono Israele a spada tratta manifesterebbero
coraggiosamente la loro disaffezione nei confronti dello Stato ebraico e sferzerebbero
gli ebrei americani per avere trasformato Israele in una religione. E se i
circoli del potere americano decidessero di fare degli ebrei un capro
espiatorio, non ci sorprenderemmo se i leader ebraici americani si
comportassero esattamente come i loro predecessori durante l'Olocausto nazista.
«Non potevamo immaginare che i tedeschi sarebbero riusciti a coinvolgere nelle
loro azioni anche elementi ebraici» ricordava Yitzhak Zuckerman, uno degli
organizzatori della rivolta del ghetto di Varsavia «e cioè che gli ebrei
avrebbero condotto alla morte altri ebrei.» (20)
[223] Durante
una serie di dibattiti pubblici negli anni Ottanta, molti studiosi di fama,
tedeschi e non tedeschi, si schierarono contro la «storicizzazione» delle
infamie del nazismo. Il timore era che essa avrebbe indotto una caduta della
tensione morale. (21) Per quanto valida possa essere stata la tesi allora, oggi
non convince più. Le dimensioni sbalorditive della Soluzione Finale di Hitler
sono ormai ben note. E la storia «normale» dell'umanità non è forse piena di
spaventosi casi di disumanità? Non c'è bisogno che un crimine sia aberrante
perché se ne renda necessaria l'espiazìone. La sfida di oggi è di ristabilire
l'Olocausto nazista come un oggetto di indagine razionale. Soltanto allora potremo
davvero trarre lezione da esso.
La sua anormalità non nasce dall'evento in sé, ma
dallo sfruttamento industriale che ne è stato fatto. L'industria dell'Olocausto
è sempre stata fallimentare. Resta solo da ammetterlo apertamente. Ed è da
molto tempo ormai che va liquidata. Il gesto più nobile nei confronti di coloro
che sono morti è serbarne il ricordo, imparare dalla loro sofferenza e,
finalmente, lasciarli riposare in pace.
APPENDICI SUGLI ULTIMI AVVENIMENTI
I (22)
Nel terzo capitolo dei presente volume ho spiegato
come l'industria dell'Olocausto abbia
«trovato una duplice fonte di guadagno» nei Paesi
europei da una parte e nei sopravvissuti ebrei all'Olocausto nazista
dall'altra. I recenti sviluppi confermano tale analisi. Chi cerca prove che
avvalorino la mia argomentazione non dovrà far altro che esaminare in maniera
critica e approfondita i documenti accessibili al pubblico.
Alla fine dell'agosto 2000, il Congresso Mondiale
Ebraico ha affermato di avere a disposizione niente meno che nove miliardi di
dollari in risarcimenti. (23) Erano stati riscossi a nome delle «vittime
bisognose dell'Olocausto», ma, a detta di Elan Steinberg, segretario
dell'organizzazione, il denaro sarebbe spettato al «popolo [230] ebraico nella
sua interezza», di cui l'ente si è in sostanza autonominato rappresentante.
Frattanto, un banchetto promosso da Edgar Bronfman, presidente del CME, e
tenutosi presso l'Hotel Pierre di New York, ha festeggiato la nascita di una
«fondazione del popolo ebraico», destinata a finanziare sia le organizzazioni
ebraiche sia l'«educazione all'Olocausto» (un ebreo critico nei confronti del
«banchetto dedicato al tema dell'Olocausto» ha rievocato il seguente scenario:
«Strage. Terribili saccheggi. Lavoro da schiavi. Buon appetito»). Le risorse
finanziarie della fondazione sarebbero provenute dalle somme «residue» rimaste
dopo la distribuzione dei risarcimento, che sarebbero ammontate «probabilmente
a diversi miliardi di dollari» (Steinberg). Dio solo sa come facesse il
Congresso Mondiale Ebraico a sapere che sarebbero rimasti «probabilmente
diversi miliardi» se alle vittime dell'Olocausto non era ancora stato liquidato
alcun indennizzo. A dire il vero, non si conosceva nemmeno il numero degli
aventi diritto. Oppure l'industria dell'Olocausto aveva riscosso i risarcimenti
a nome delle «vittime bisognose» sapendo già che sarebbero rimasti
«probabilmente diversi miliardi»? Così facendo, si è resa sostenitrice di due
affermazioni contraddittorie: da una parte sosteneva che le trattative per
raggiungere un accordo con la Germania e la Svizzera avrebbero prodotto solo
modeste somme per i superstiti, dall'altra che sarebbero avanzati
«probabilmente diversi miliardi».
[231] Come era facile prevedere, i sopravvissuti
all'Olocausto hanno reagito con rabbia (nessuno di loro aveva preso parte alla
creazione della fondazione). «Chi ha consentito a queste organizzazioni di
decidere» si legge nell'infiammato editoriale di uno dei loro giornali «di
utilizzare le somme "residue" (dell'ordine di miliardi) ottenute a
nome delle vittime della Shoah per realizzare i loro progetti prioritari
anziché per aiutare tutti i
sopravvissuti all'Olocausto a sostenere i costi sempre maggiori dell'assistenza
medica?» Di fronte al fuoco di sbarramento delle reazioni negative del
pubblico, il CME ha fatto un improvviso dietrofront. La cifra di nove miliardi
era un po' fuorviante, ha riconosciuto in seguito Steinberg, precisando che la
fondazione «non dispone di alcuna somma, né di alcun piano per distribuirla» e
che il banchetto non era stato organizzato per festeggiare il finanziamento
dell'ente mediante gli indennizzi, bensì per raccogliere fondi a quello scopo.
I sopravvissuti ebrei più anziani, che in precedenza nessuno aveva interpellato
né tanto meno invitato al «galà costellato di star», hanno dimostrato davanti
all'ingresso dell'Hotel Pierre.
Tra gli ospiti figurava anche il presidente Clinton
che, con parole commoventi, ha ricordato come gli Stati Uniti siano sempre in
prima linea quando è necessario «guardare in faccia un brutto passato»: «Sono
stato nelle riserve dei nativi americani e ho ammesso [232] che in molti casi i
trattati da noi sottoscritti sono stati ingiusti e non sono stati rispettati
con onestà. Mi sono recato in Africa [...] e ho riconosciuto la responsabilità
degli Stati Uniti nella vendita di esseri umani ridotti in schiavitù. Ci stiamo
sforzando di trovare l'essenza più profonda della nostra umanità, e questo è un
compito tutt'altro che semplice». Come è facile intuire, quel che manca in
tutti questi esempi del «compito tutt'altro che semplice» è una riparazione in
moneta forte. (24)
L'11 settembre 2000 è stato infine reso noto il
«piano proposto dal responsabile straordinario per il pagamento e la
distribuzione del ricavato della conciliazione» concordato con le banche
svizzere durante la controversia giudiziaria e denominato qui di seguito piano
Gribetz. (25) Dopo ben due anni di lavoro, il momento dell'annuncio non è stato
scelto tenendo in considerazione gli interessi delle «vittime bisognose
dell'Olocausto, di cui alcune muoiono ogni giorno», bensì in vista del galà di
quella sera. Burt Neuborne, il principale consulente dell'industria
dell'Olocausto durante le trattative con le banche svizzere, ha elogiato il
documento definendolo «elaborato con la massima esattezza [...] redatto con
grande meticolosità ed empatia». (26) Il piano sembrava infatti smentire i
timori sempre più diffusi secondo cui il denaro non sarebbe finito nelle tasche
delle organizzazioni ebraiche. Il «Forward» ha riferito per esempio che «il
piano di distribuzione [...] pre[233]vede che oltre il novanta per cento delle
somme svizzere venga versato direttamente ai sopravvissuti e ai loro eredi».
Elan Steinberg ha dichiarato che «il Congresso Mondiale Ebraico non ha mai
preteso nemmeno un centesimo, non intascherà mai nemmeno un centesimo e non
accetterà alcun fondo di indennizzo» e ha elogiato il piano Gribetz definendolo
con ipocrisia «un documento straordinariamente saggio e dettato dalla
compassione». È senza dubbio saggio, ma per nulla dettato dalla compassione.
Nelle sue minuscole postille si cela infatti la diabolica verità secondo cui,
con ogni probabilità, solo una piccola parte del denaro elvetico verrà versata
direttamente ai superstiti dell'Olocausto e ai loro eredi. Prima di
approfondire questo aspetto, occorre tuttavia sottolineare che il documento
dimostra, in maniera convincente anche se involontaria, come l'industria
dell'Olocausto abbia spremuto la Svizzera. (28)
Il lettore rammenta forse che nel maggio 1996 le
banche svizzere avevano acconsentito formalmente alla conduzione di
un'esauriente indagine esterna (a detta di Richter Roman «l'indagine più
completa e costosa della storia»), in base ai risultati della quale sarebbero
state prese in esame tutte le rivendicazioni pendenti dei sopravvissuti
all'Olocausto e dei loro eredi. (29) Ancor prima che la commissione d'inchiesta
presieduta da Paul Volcker avesse la possibilità di riunirsi, l'industria
dell'Olocausto aveva tuttavia insistito per il raggiungi[234]mento di un
accordo finanziario. Per battere sul tempo la commissione Volcker, erano state
sollevate due obiezioni: per prima cosa non si poteva fare affidamento
sull'organismo e, secondariamente, le vittime bisognose dell'Olocausto non potevano
aspettare gli esiti dell'indagine. Il piano Gribetz svuota di significato
entrambe le obiezioni.
Nel giugno 1997, Neuborne aveva presentato un
«parere legale» per giustificare come mai non si volesse attendere la
conclusione dei lavori della commissione. Negando con grande sfacciataggine
l'evidenza, aveva definito l'organismo un espediente elvetico per sviare le critiche verso un «tentativo privato di
composizione promosso, pagato e guidato dagli imputati». (30) Cosa ancor più
interessante, Neuborne aveva persino accusato i banchieri svizzeri di essersi
intascati i cinquecento milioni di dollari destinati all'inchiesta senza
precedenti che era stata loro imposta. Nell'agosto 1998, ancora prima che la
commissione Volcker portasse a termine il proprio compito, l'industria
dell'Olocausto era riuscita a far approvare a carico degli svizzeri una somma
di conciliazione non rimborsabile
pari a un miliardo e duecentocinquanta milioni di dollari. (31) Benché, pur di
ottenere tale accomodamento, fossero state messe in circolazione voci secondo
cui la commissione Volcker era inaffidabile, il piano Gribetz copre l'organismo
di elogi e sottolinea che i suoi esiti e le sue procedure di [235] esame delle
rivendicazioni («Claims Resolution Tribunal» o CRI Tribunale per la risoluzione
delle rivendicazioni) sono stati e sono di «importanza decisiva» per la
distribuzione del denaro svizzero. (32) Il fatto che, nel caso della
ripartizione dei fondi, l'industria dell'Olocausto si sia appoggiata tanto
volentieri alla commissione smentisce il pretesto principale che aveva usato
per batterla sul tempo ottenendo una somma di accomodamento non rimborsabile.
In base all'accordo raggiunto con l'industria
dell'Olocausto, gli svizzeri non solo sono stati costretti a rimborsare conti
inattivi dell'epoca dell'Olocausto nazista, ma anche a «restituire i proventi»
che avevano ricavato «consapevolmente» dai titolari ebrei derubati dai nazisti
e dal lavoro forzato degli ebrei. (33)
Il piano Gribetz dimostra anche l'infondatezza di
tali rilievi. Riconosce che, se mai ve ne furono, i contatti diretti tra gli
svizzeri da una parte e i titolari ebrei derubati o gli ex internati nei campi
di lavoro dall'altra furono pochissimi, per non parlare poi dei contatti
direttamente redditizi o consapevolmente redditizi. Il piano rivela infatti che
i rilievi contenuti in queste accuse collettive si basano su avvenimenti che
accaddero «forse», «probabilmente» o «presumibilmente». (34) Gli svizzeri sono
infine stati obbligati a risarcire gli ebrei che si erano visti negare
l'accoglienza mentre fuggivano dai nazisti. Il piano Gribetz riconosce
espressamente, [236] anche se solo in una nota. che tale rivendicazione è
«discutibile dal punto di vista giuridico». (35) Nonostante tutte queste
ammissioni, il documento continua tuttavia a sostenere in tono di approvazione
che «in un mondo davvero giusto, i protagonisti di questa vicenda avrebbero
dovuto ricevere una somma molto più elevata» del miliardo e duecentocinquanta
milioni di dollari sottratti agli svizzeri. (36)
Per ottenere un indennizzo non rimborsabile, oltre
ad alludere alla presunta parzialità della commissione Volcker, l'industria
dell'Olocausto ha accennato al fatto che ai sopravvissuti non restava ancora
molto da vivere. Il tempo ha svolto un ruolo tanto decisivo perché, a quanto si
diceva, «le vittime bisognose dell'Olocausto» sarebbero vissute ancora per
poco. Dopo essere entrata in possesso del denaro, l'industria dell'Olocausto ha
tuttavia scoperto all'improvviso che le «vittime bisognose» non muoiono poi
così in fretta. Riferendosi a uno studio commissionato dalla Claims Conference,
il piano Gribetz asserisce che «il numero delle vittime del nazismo decresce
con maggiore lentezza di quanto si pensasse inizialmente». Il documento prevede
infatti che «un numero abbastanza significativo di vittime ebree dei nazisti
vivrà presumibilmente almeno per altri vent'anni e che, con ogni probabilità,
fra trenta o trentacinque anni» (vale a dire circa novant'anni dopo la Seconda
guerra mondiale) «saranno ancora in vita [237] parecchie decine di migliaia di
ebrei perseguitati dal nazismo». (37) Visto il modo in cui si è evoluta finora
la storia dell'industria dell'Olocausto' nessuno dovrebbe stupirsi apprendendo
che in realtà tale scoperta verrà sfruttata per imporre all'Europa altre
richieste di risarcimento e che nel frattempo viene usata per rimandare la
liquidazione delle somme. Il piano Gribetz consiglia pertanto di distribuire il
denaro poco per volta in modesti importi, perché «sarebbe controproducente
destare nelle vittime bisognose speranze che non farebbero altro che erodere il
capitale a disposizione e dunque le possibilità d'aiuto». (38)
Durante le trattative con le banche svizzere,
l'industria dell'Olocausto ha affermato che l'età media dei sopravvissuti si
aggirava intorno ai settantatré anni in Israele e agli ottaneanni nel resto del
mondo. raspettativa di vita nei tre Paesi in cui oggi si trova il maggior
numero di sopravvissuti oscilla tra i sessanta (nei Paesi dell'ex Unione
Sovietica) e i settantasette anni (negli Stati Uniti e in Israele). (39) Non è
uno scandalo chiedersi come sia possibile pensare che fra trentacinque anni
saranno ancora in vita «decine di migliaia» di superstiti. Si può in parte
rispondere a questa domanda rammentando che l'industria dell'Olocausto ha
riformulato per l'ennesima volta la definizione di sopravvissuto. «Uno dei
motivi alla base di questa diminuzione relativamente lenta del loro numero»
sostiene il citato stu[238]dio della Claims Conference «consiste nel fatto che, se si applica la definizione estesa,
esistono molte più giovani vittime del nazismo di quanto si pensasse in un
primo momento» (il corsivo è nell'originale). (40) Seguendo criteri
infiazionistici che ricordano l'epoca di Weimar, il piano Gribetz quantifica i superstiti
ancora vivi in quasi un milione, il quadruplo dei già sorprendenti
duecentocinquantamila individui indicati quando è stato imposto il risarcimento
per l'Olocausto alla Svizzera. (41)
Per realizzare questo capolavoro statistico e
demografico, il piano Gribetz considera sopravvissuto all'Olocausto ogni ebreo
russo scampato alla Seconda guerra mondiale. (42) Gli ebrei russi che erano già
sfuggiti ai nazisti o che servirono nell'Armata rossa diventano così
sopravvissuti all'Olocausto, perché, se fossero stati catturati, sarebbero
stati torturati e uccisi. (43) Anche se si adotta questa nuova definizione ai
fini dell'argomentazione, non si spiega come mai i funzionari sovietici che
erano già sfuggiti ai nazisti e i soldati non ebrei dell'Armata rossa non
rientrino nella medesima categoria. Se fossero stati catturati, anche loro
infatti sarebbero stati torturati e uccisi. Il piano Gribetz riferisce, per
esempio, che un militare ebreo americano preso prigioniero dai nazisti fu
internato in un campo di concentramento. (44) Tutti i soldati semplici
americani della Seconda guerra mondiale non dovrebbero quindi esse[239]re
definiti sopravvissuti all'Olocausto? Qui si apre una vasta gamma di
possibilità. Come spiega un illustre storico della sezione Olocausto del
British Imperial War Museum esprimendosi a favore di tale aggiornamento dei
dati sulla mortalità all'interno del piano Gribetz, «in senso ancor più lato
possono [...] essere considerati "sopravvissuti all'Olocaust" anche i
discendenti della seconda e persino della terza generazione», perché «può darsi
che soffrano di danni psichici». (45) Tra qualche tempo l'industria
dell'Olocausto perdonerà persino Wilkomirski definendo anche lui un
sopravvissuto, giacché, per citare il direttore dello Yad Vashem, il suo
«dolore è autentico».
Per molti aspetti, all'industria dell'Olocausto
conviene dare una nuova definizione di sopravvissuto e arrotondare per eccesso
il numero delle vittime. In tal modo, non solo giustifica il fatto di avere
sottratto denaro agli Stati europei, ma anche di averlo sottratto alle vere
vittime dell'Olocausto nazista. Per anni, queste ultime hanno implorato la
Claims Conference di destinare il denaro dei risarcimenti a un programma di
assicurazione sanitaria. Nel piano Gribetz, questa «interessante» proposta
viene menzionata in una nota, deplorando il fatto che la somma ricavata dalla
composizione con la Svizzera «non sarebbe sufficiente» a garantire
un'assicurazione sanitaria per «oltre ottocentomila sopravvissuti
all'Olocausto». (46) A parte un importo irri[240]sorio, secondo il piano
Gribetz il denaro elvetico è destinato solo agli ebrei vittime del nazismo. Dal
punto di vista tecnico, la composizione riguardava tutte «le vittime reali o
designate della persecuzione nazista». In realtà, questa formulazione
all'apparenza completa e «politicamente corretta» è uno stratagemma linguistico
per escludere la maggior parte delle
vittime non-ebree. L'espressione «vittime reali o designate della persecuzione
nazista» comprende deliberatamente solo ebrei, zingari, testimoni di Geova,
omosessuali e disabili. Per qualche misterioso motivo, esclude altri perseguitati
politici (per esempio i comunisti e i socialisti) e di diverse etnie (per
esempio i polacchi e gli abitanti della Bielorussia) che formano gruppi molto
più numerosi rispetto a quelli elencati nel piano Gribetz accanto agli ebrei
come «vittime reali o designate della persecuzione nazista». A livello pratico,
ciò significa che quasi tutto il denaro dei risarcimenti spetta agli ebrei. Il
piano comprende centosettantamila lavoratori schiavi ebrei; su un milione di
lavoratori schiavi non ebrei, solo trentamila vengono tuttavia considerati
«vittime reali o designate della persecuzione nazista». Analogamente, il
documento prevede novanta milioni di dollari per le vittime ebree dei saccheggì
nazisti, destinando invece solo dieci milioni ai non ebrei. P, in parte
possibile giustificare tale suddivisìone ricordando che una simile situazione
affonda le sue radici nei precedenti accordi di [241] indennizzo. Il piano
lascia però anche intuire che in passato le vittime non ebree abbiano ricevuto
una quota troppo esigua dei risarcimenti. Un piano di distribuzione equo non
dovrebbe porre rimedio alle precedenti ingiustizie anziché accentuarle? (47)
Del miliardo e duecentocinquanta milioni di dollari
estorti alla Svizzera, il piano Gribetz stanzia niente meno che ottocento
milioni per soddisfare le legittime rivendicazioni su conti bancari inattivi
dell'epoca delr Olocausto. Comprese le appendici e le tabelle, il testo del
documento si compone di parecchie centinaia di pagine con oltre mille note. L'unico particolare curioso consiste
nelfatto che il piano non tenta mai di fornire motivazioni credibili per questa
decisiva ripartizione. Si limita infatti a stabilire quanto segue: «Sulla
base dell'analisi del rapporto Volcker, dei decreto giudiziario definitivo e
delle consultazioni con i rappresentanti della commissione Volcker, il
responsabile straordinario stima che il valore complessivo dei conti bancari da
rimborsare si aggiri intorno agli ottocento milioni di dollari». (48) Tale
valutazione appare grottesca ed esagerata. Con ogni probabilità, la somma
versata per i contì inattivi ammonta solo a una minuscola frazione dì questi
ottocento milioni. (49) Si desume che il denaro «residuo», vale a dire la somma
rimasta una volta soddisfatte tutte le rivendicazioni legittime, verrà
distribuito direttamente ai superstiti o
a organizzazioni ebraiche la [242] cui attività sia legata all'Olocausto.
(50) In realtà, le risorse rimanenti andranno quasi sicuramente alle
organizzazioni ebraiche, non solo perché l'industria dell'Olocausto avrà
l'ultima parola, ma anche perché il denaro verrà distribuito solo tra molti
anni, quando i veri sopravvissuti ancora in vita saranno pochissimi.51
A parte gli ottocento milioni di dollari destinati a
rimborsare i conti bancari, il piano Gribetz ripartisce circa quattrocento
milioni prevalentemente tra le categorie «proprietari derubati», «lavoratori
schiavi» e «rifugiati». Ma contiene anche la decisiva riserva secondo cui
nessuna di queste somme verrà sbloccata finché «non saranno esauriti tutti i
ricorsi della controversia legale». Il documento riconosce che i «pagamenti
proposti forse non potranno cominciare se non tra qualche tempo» e cita un interessante
precedente in cui i procedimenti di ricorso sono durati tre anni e mezzo. (52)
I sopravvissuti anziani all'Olocausto non possono vincere, perché l'industria
dell'Olocausto non può assolutamente perdere. Molti di loro, indignati per via
del piano, vorranno senza dubbio fare ricorso, ma, anche nell'ipotesi in cui il
ricorso avesse successo, solo pochi ne trarrebbero vantaggio. I procedimenti di
ricorso potranno solo arricchire ulteriormente l'industria dell'Olocausto, che
è già la principale beneficiaria del piano Gribetz: a causa del ritardo, altre
somme andranno infatti a rimpinguare i suoi forzieri mentre morirà un numero
sempre maggiore di superstiti.
[243] Una volta sfruttate tutte le vie legali, il
piano Gribetz prevede la seguente ripartizione per questi quattrocento milioni:
1)
Nella categoria «proprietari derubati». novanta
milioni non verranno versati direttamente ai sopravvissuti all'Olocausto, bensì
a organizzazioni ebraiche che assistono «comunità dell'Olocausto» in senso
lato. La parte più consistente spetterà alla Claims Conference, che il piano
Gribetz elogia più volte per la sua «incomparabile esperienza al servizio delle
esigenze delle vittime del nazismo». (53) Il documento riserva dieci milioni a
una «fondazione il cui obiettivo consisterà nel raccogliere i nomi di tutte le
vittime, reali o designate, della persecuzione nazista e nel renderli
disponibili a scopo di ricerca o commemorazione». Consiglia inoltre alla
fondazione di utilizzare come materiale di base gli «insostituibili dati dei
questionari originali» compilati dalle vittime dell'Olocausto. Una risposta
frequente tra questi «insostituibili dati» rivela che ben una su sei vittime
ebree (settantunomila su quattrocentotrentamila) ha dichiarato di essere stata
titolare di un conto bancario elvetico prima della Seconda guerra mondiale. Una
su sei possedeva anche una Mercedes e uno chalet in Svizzera. (54)
2)
Nella categoria «lavoratori schiavi», ciascuno
dei centosettantamila ex forzati di origine ebraica ancora in vita dovrebbe
ricevere un pagamento suddiviso in [244] due rate: cinquecento dollari quando
tutti i ricorsi saranno stati risolti e «fino a» cinquecento dollari quando
saranno state verificate tutte le rivendicazioni sui conti bancari inattivi.
(55) In realtà, la cifra di centosettantamila persone è un'esagerazione, e
probabilmente molti degli ex lavoratori schiavi ebrei non vivranno abbastanza
da riscuotere la prima rata, per non parlare poi della seconda. Le domande
vengono esaminate dalla Claims Conference, che, in quanto principale
beneficiaria dei risarcimenti rimasti, trarrà vantaggio da ogni richiesta
respinta.
3)
Nella categoria «rifugiati», gli aventi diritto
riceveranno somme comprese tra i duecentocinquanta e i duemilacinquecento
dollari, che, come nel caso dei «lavoratori schiavi», verranno corrisposte in
due rate. (56) In base agli «insostituibili dati contenuti nel questionari
originali», circa diciassettemila ebrei hanno reclamato l'appartenenza a questo
gruppo. Con ogni probabilità, solo una piccola parte di queste diciassettemila
persone riuscirà però a dimostrare di godere di un diritto legittimo (sarà la
Claims Conference a valutare le domande), e ancora meno saranno gli individui
che vivranno abbastanza a lungo da riscuotere il denaro.
Un'accurata analisi del piano Gribetz conferma
pertanto le principali argomentazioni esposte nel terzo capitolo del presente
volume. Dimostra che i pretesti addotti dall'industria dell'Olocausto per
esigere dalle [245] banche elvetiche una somma di composizione non rimborsabile
sono falsi e che pochi dei veri sopravvissuti all'Olocausto nazista
beneficeranno direttamente (o anche solo indirettamente) del denaro svizzero.
L'esame di altri accordi conclusi dall'industria dell'Olocausto produrrebbe
probabilmente risultati analoghi. Le norme esecutive del piano Gribetz
nascondono in effetti un gruzzolo d'emergenza a essa destinato. Con ogni
probabilità, la maggior parte dei fondi svizzeri verrà distribuita solo quando
non sarà rimasto altro che un esiguo gruppetto di sopravvissuti. Una volta
venuti a mancare questi ultimi, il denaro si riverserà nei forzieri delle
organizzazioni ebraiche. Non c'è dunque da meravigliarsi se il piano Gribetz è
stato elogiato all'unanimità dall'industria dell'Olocausto.
Norman G. FinkeIstein novembre 2000 New York
[257]
II (57)
L'industria
dell'Olocausto si incentra su due tesi fondamentali. In primo luogo, i
tedeschi - e soltanto i tedeschi - devono assumersi la responsabilità di fare i
conti con il proprio passato. Nella
Catastrofe della Germania, Friedrich Meinecke osserva che la Germania
nazista non fu unicamente malvagia perché l'«elemento amorale» su cui si
imperniava infettò l'intera civiltà occidentale. «Questa verità» ci avverte
tuttavia «non dovrebbe essere una giustificazione per noi tedeschi.
Considerazioni di natura etica e storica impongono a noi tedeschi di pensare a
ciò che riguarda noi e sforzarci di comprendere A ruolo speciale svolto dalla
Germania in questa situazione.» (58) È vero anche il contrario: considerazioni
di natura etica e storica impon[258]gono, per esempio, agli Stati Uniti di
pensare a ciò che riguarda loro. Pur essendo fin troppo disposti a
sovrintendere alla resa dei conti tedesca, gli americani non sono invece
disposti a concepire un'analoga responsabilità né sono capaci di farlo. Nel
discorso che ha segnato la conclusione delle negoziazioni sul lavoro
schiavistico in Germania, il segretario di Stato Madeleine Albright ha spiegato
che è «negli interessi della politica estera statunitense adottare misure per
affrontare le conseguenze dell'era nazista, imparando le lezioni di questo
capitolo buio della storia tedesca, insegnandole al mondo e cercando di
garantire che fatti del genere non si ripetano mai più». (59) A dire il vero,
sarebbe negli «interessi della politica estera» di quasi tutta l'umanità se gli
Stati Uniti analizzassero i «capitoli bui» del loro passato. Mentre i tedeschi
combattono ogni giorno contro i propri crimini storici, gli americani non hanno
infatti ancora riconosciuto la maggior parte dei loro. Nella maggior parte
delle discussioni americane sul Vietriam, ci si domanda soltanto quando i
vietnamiti ammetteranno quel che ci hanno fatto. (60) In altre parole, noi
americani ci troviamo sul medesimo piano morale del discorso di Himmler a
Posen.
La seconda tesi fondamentale dell'Industria dell'Olocausto sostiene che
le élite ebraiche americane sfruttano l'Olocausto nazista per ottenere vantaggì
politici e finanziari. Nella Questione
della colpa, Karl Jaspers affer[259]ma che l'«accusa» rivolta alla Germania
«non è più un'incriminazione» se diviene «un'arma
usata [...] per altri scopi, siano essi politici o economici» (corsivo
nell'originale). (61) Pur avendo l'indiscutibile responsabilità di affrontare
gli orrori del nazismo, i tedeschi hanno anche il diritto di opporsi allo
sfruttamento di tali crimini.
Nell'Industria
dell'Olocausto ho spiegato come le organizzazioni, le istituzioni e le
personalità di spicco del mondo ebraico americano abbiano strumentalizzato
l'Olocausto nazista per proteggere Israele dalle critiche e, in epoca più
recente, per ricattare l'Europa. Il principale rimprovero rivolto al libro non
mi incolpa di aver travisato i fatti, bensì di aver inventato una «teoria della
cospirazione» nel tentativo di descrivere questa iniziativa coordinata. Nella Ricchezza delle nazioni, Adani Smith
osserva che i capitalisti «di rado si incontrano, anche per gaiezza e
divertimento, ma le loro conversazioni finiscono sempre in cospirazione contro
il pubblico o in un qualche espediente per aumentare i prezzi». Un simile
assunto trasforma forse anche il classico di Smith in una «teoria della
cospirazione»? (62)
***
Dalla pubblicazione dell'edizione
tedesca dell'Industria dell'Olocausto,
i nuovi sviluppi hanno avvalorato le mie [260] teorie principali. Nell'ottobre
del 2001, il Claims Resolution Tribunal (CRT), pronunciandosi sui ricorsi
riguardanti i conti svizzeri inattivi dalla fine della Seconda guerra mondiale,
ha reso noti gli esiti delle sue ricerche tramite una lista iniziale di 5570
conti esteri. Ha scoperto che il valore attuale dei conti appartenenti alle
vittime dell'Olocausto, inclusi gli interessi maturati, ammonta a dieci milioni
di dollari. Con ogni probabilitá, una volta risolti i ricorsi sui restanti
ventunmila conti inattivi e chiusi dell'epoca dell'Olocausto, tale cifra non si
avvicinerà nemmeno lontanamente al miliardo e duecentocinquanta milioni di
dollari estorto alle banche svizzere nella composizione definitiva, per non
parlare poi della somma richiesta in origine, compresa tra i sette e i venti
miliardi. Riferendo le conclusioni del CRI il «Times» di Londra ha pubblicato
un articolo intitolato: «Il denaro svizzero dell'Olocausto è un mito». Il peso
delle prove convalida l'accusa di Raul Hilberg, secondo cui il Congresso
Mondiale Ebraico ha inventato «cifre stratosferiche» per poi «ricattare» le
banche svizzere e costringerle a sottomettersi. (63) Poiché solo una
piccolissima percentuale del miliardo e duecentocinquanta milioni di dollari
della composizione con la Svizzera è finita nelle tasche delle vittime o dei
loro eredi, i ricattatori hanno cominciato, come era prevedibile, a contendersi
il bottino dell'Olocausto. È interessante notare che chi si trova in mezzo [261]
a questo fuoco incrociato è proprio la vittima dei ricattatori. Sostenendo che
Israele è il legittimo destinatario e dichiarando: «Non mi fido del
Congresso Mondiale Ebraico», il ministro della
Giustizia israeliano chiede infatti che «l'accordo con le banche svizzere venga
rinegoziato». (64)
La tattica del ricatto adottata da Stuart Eizenstat,
il principale ufficiale di collegamento dell'industria dell'Olocausto con
l'amministrazione Clinton (dove ha lavorato come vicesegretario al Tesoro), si
è dimostrata meno efficace nei confronti della Francia. In Francia, la
commissione Matteoli aveva individuato sessantaquattromila conti bancari forse
appartenuti a vittime dell'Olocausto, un numero molto più elevato rispetto ai
venticinquemila conti svizzeri. Pur avanzando richieste che hanno «scioccato» i
francesi, Eizenstat, che ha lavorato con l'acqua alla gola nelle fasi finali
della presidenza Clinton, è però riuscito a strappare solo una somma di poco
superiore a quella effettivamente dovuta alle vittime dell'Olocausto. In una
«Dichiarazione d'interesse» allegata all'accordo definitivo, Eizenstat ha
sottolineato che «tra gli interessi degli Stati Uniti figura [...] un'equa e
tempestiva risoluzione» dei ricorsi presentati dalle vittime dell'Olocausto
contro la Francia, «per portare un po' di giustizia nella loro vita». Senza
dubbio un nobile interesse, che, ahimè, non si è però esteso ai ricorsi contro
gli Stati Uniti. Il confron[262]to tra la documentazione statunitense e quella
svizzera è suffidente a mettere in luce questa ipocrisia. (65)
Nel maggio del 1998, il Congresso
ha incaricato una commissione consultiva presidenziale di «condurre nuove
ricerche sul destino dei beni sottratti alle vittime dell'Olocausto ed entrati
in possesso del governo federale degli Stati Uniti» e di «suggerire al
presidente le politiche da adottare per la restituzione dei beni rubati ai
legittimi proprietari o ai loro eredi». (66) Nel dicembre del 2000, la
commissione, presieduta da Edgar Bronfman (che aveva orchestrato l'attacco alle
banche svizzere), ha pubblicato il tanto atteso rapporto, intitolato Plunder and Restitution: The U.S. and
Holocaust Victims' Assets. (67) Il
documento vuole dimostrare che «gli Stati Uniti non hanno preteso da se stessi
meno di quanto abbiano preteso dalla comunità
intemazionale». (68) In realtà,
un'attenta lettura della relazione conduce alla conclusione opposta: pur essendosi macchiati di tutti i reati di
cui hanno accusato gli svizzeri, gli
Stati Uniti
non si sono visti imporre analoghe richieste di restituzione. (69)
La commissione presidenziale contrappone
l'«intransigenza delle banche svizzere» agli
«straordinari sforzi» compiuti dagli Stati Uniti per
restituire i beni dell'epoca dell'Olocausto. (70) Io vorrei prima confrontare
le accuse rivolte agli svizzeri con il comportamento americano rivelato nel
rapporto della commissione.
[263]
La negazione dell'accesso ai beni
dell'epoca dell'Olocausto
L'industria dell'Olocausto ha accusato le banche
svizzere di aver sistematicamente negato ai sopravvissuti e ai loro eredi
l'accesso ai conti dopo la Seconda guerra mondiale. La commissione Volcker ha
concluso che, tranne qualche raro caso, questa accusa era priva di fondamento.
(71) La commissione presidenziale ha invece scoperto che, dopo il conflitto,
«molti» sopravvissuti all'Olocausto e loro eredi non riuscirono a recuperare i
beni negli Stati Uniti a causa «dei costi e delle difficoltà di compilazione»
del ricorso (dal 1941 il governo federale bloccava o investiva i beni di tutti
i cittadini provenienti dai paesi che avevano subito l'occupazione nazista).
(72) Come le banche svizzere, in «alcuni casi» il governo federale cercò i
legittimi proprietari. (73)
La distruzione della documentazione
riguardante i beni dell'epoca dell'Olocausto
L'industria dell'Olocausto ha accusato le banche
svizzere di aver sistematicamente distrutto documenti importanti nel tentativo
di coprire le proprie tracce. La commissione Volcker ha concluso che l'accusa
era priva di fondamento. (74)
A distruggere fondamentali «dati grezzi» sono invece
stati gli Stati Uniti. Dopo la dichiarazione di guerra contro l'Asse, il
ministero del Tesoro chiese alle società [264] finanziarie americane di
presentare elenchi dettagliati di tutti i beni di cittadini stranieri in deposito.
La commissione riferisce che i moduli (in tutto 565.000) «sono andati distrutti
e che le indagini non hanno portato alla luce alcun duplicato. È pertanto
impossibile stimare l'ammontare dei beni delle vittime negli Stati Uniti nel
1941». Stranamente, la commissione non dice quando e perché i documenti siano
stati macerati. (75)
L'appropriazione indebita dei beni
dell'epoca dell'Olocausto
L'industria dell'Olocausto ha giustamente accusato
la Svizzera di aver usato il denaro di proprietà delle vittime dell'Olocausto
provenienti dalla Polonia e dall'Ungheria come risarcimento per i beni svizzeri
nazionalizzati dai governi di questi paesi. (76) La Commissione presidenziale
riferisce tuttavia che ciò accadde anche negli Stati Uniti: «Il risarcimento
dei beni statunitensi perduti in Europa ebbe la precedenza sul risarcimento dei
beni di cittadini stranieri congelati negli Stati Uniti. Il Congresso considerò
i beni tedeschi congelati una fonte con cui liquidare le richieste statunitensi
per il risarcimento dei danni subiti da società e cittadini americani durante
la guerra [...] I danni statunitensi furono così in parte risarciti mediante
beni tedeschi che comprendevano, con ogni probabilità, i beni delle vittime
[dell'Olocausto]». (77)
[265]
Il commercio dell oro nazista rubato
L'industria dell'Olocausto ha giustamente accusato
gli svizzeri di aver acquistato l'oro nazista sottratto alle tesorerie centrali
europee. (78) La commissione presidenziale rivela tuttavia che gli Stati Uniti
fecero lo stesso. Il commercio dell'oro nazista rubato restò infatti una
politica ufficiale americana finché la dichiarazione di guerra della Germania
ne impedì la prosecuzione. Vale la pena di citare per intero il relativo brano
del rapporto della commissione:
L'invasione tedesca di Francia, Belgio e Paesi Bassi
nel maggio del 1940 indusse il signor Pinsent, consulente finanziario presso
l'ambasciata britannica, a inviare un messaggio al ministero del Tesoro per
chiedere al signor Morgenthau [il segretario del Tesoro] «se fosse disposto a
passare al setaccio le importazioni d'oro allo scopo di rifiutare quelle
presumibilmente tedesche», poiché Pinsent aveva il chiaro timore che le riserve
private di oro belga e olandese finissero in mano tedesca. In un memorandum del
4 giugno 1940, Harry Dexter White [responsabile della Divisione per le ricerche
valutarie] spiega perché il ministero del Tesoro statunitense non abbia sollevato
domande riguardo all'origine dell'oro «tedesco» [...] La mossa più efficace che
gli Stati Uniti potessero compiere affinché l'oro continuasse a essere un mezzo
di scambio internazionale, sostiene White, [266] «consiste nel conservarne
l'inviolabilità e l'accettazione indiscussa come mezzo di pagamento
internazionale». In effetti, sei mesi dopo, White avrebbe parlato con sdegno
della sua «incrollabile opposizione a prendere in seria considerazione le
proposte avanzate da coloro che non conoscono a fondo l'argomento e ci chiedono
di sospendere l'acquisto dell'oro o di smettere di comprare l'oro di un
determinato paese per una ragione o per un'altra». All'inizio dei 1941, un
memorandum interno del ministero del Tesoro invitò nuovamente White a porsi la domanda:
«Di chi è l'oro che acquistiamo?», ma dai suoi appunti risulta chiaramente che
la risposta fu «un'accettazione indiscussa dell'oro». (79)
L'industria dell'Olocausto ha giustamente accusato
gli svizzeri anche di aver comprato l'oro nazista rubato alle vittime
dell'Olocausto. Nulla dimostra però che gli svizzeri abbiano comprato
consapevolmente «l'oro delle vittime», il cui valore complessivo attuale è
stato stimato in circa un milione di dollari. (80) La Commissione presidenziale
non esclude inoltre che «i lingotti e le monete acquistati dal ministero del
Tesoro mediante le Federal Reserve Banks di New York durante e dopo la guerra
contenessero quantità infinitesimali di oggetti d'oro rubati alle vittime del
nazismo». (81)
In sintesi, il rapporto della Commissione
presidenziale dimostra che gli Stati Uniti si macchiarono di tut[267]te le
accuse rivolte alla Svizzera dall'industria dell'Olocausto.
Quest'ultima ha costretto le banche svizzere a
condurre un'esauriente indagine esterna, costata mezzo miliardo di dollari, per
individuare tutti i beni non reclamati dell'epoca dell'Olocausto. Ancor prima
che l'indagine venisse completata, l'industria dell'Olocausto ha imposto agli
svizzeri il risarcimento di un miliardo e duecentocinquanta milioni di dollari.
(82) La commissione Volcker ha tuttavia riferito che gli Stati Uniti erano,
proprio come la Svizzera, uno dei principali porti d'approdo dei beni ebrei in
Europa. (83) Esaminiamo ora le richieste imposte agli Stati Uniti.
Come già detto, la Commissione presidenziale ha
dichiarato che il suo «lavoro [...] dimostra che gli Stati Uniti non hanno
preteso da se stessi meno di quanto abbiano preteso dalla comunità
internazionale». La Commissione non ha tuttavia eseguito un calcolo completo
dei beni dell'epoca dell'Olocausto non reclamati in territorio statunitense. Il
rapporto sostiene che non spettava alla Commissione «quantificare
meccanicisticamente o attribuire un valore in dollari alle carenze storiche
rilevate nella politica statunitense o nella sua messa in opera». (84) A quanto
pare, non ha potuto farlo sia a causa del «necessario compromesso tra gli
obiettivi della ricerca e il tempo e le risorse disponibili per il suo
completamento» sia a causa dell'«insufficien[268]za e della qualità eterogenea
della documentazione in suo possesso». (85) Inspiegabilmente, la Svizzera è
riuscita a superare tali ostacoli, ma gli Stati Uniti no. Che cosa ha impedito
di investire più «tempo e risorse» e di condurre un'indagine sul modello
svizzero per colmare le lacune documentali? (86) Allo stesso modo, un computo
accurato dei beni dell'epoca dell'Olocausto restituiti avrebbe richiesto
«indagini sistematiche che sarebbero state al di là delle capacità» (87) della
Commissione, ma non al di là di quelle delle banche svizzere.
La Commissione riferisce che la Jewish Restitution
Successor Organization (JRSO) «accettò solo con riluttanza» il risarcimento di
cinquecentomila dollari offerto dal governo statunitense all'inizio degli anni
Sessanta per i beni dell'epoca dell'Olocausto non reclamati. (88) Sebbene i
risultati del rapporto avvalorino l'assunto di Seymour Rubin, secondo cui la
cifra di cinquecentomila dollari era «assai modesta», (89) la Commissione
conclude, come era prevedibile, che l'esiguità del risarcimento non è «imputabile
a cattive intenzioni da parte di alcun funzionario, agente o istituzione
statunitense». (90) Il rapporto non accenna nemmeno al fatto che gli Stati
Uniti dovrebbero pagare un risarcimento maggiore, per non parlare poi di una
cifra paragonabile al miliardo e duecentocinquanta milioni di dollari estorto
agli svizzeri.
La Commissione presidenziale acclude inoltre una
[269] lista di nobili raccomandazioni. (91) Al termine della guerra, i soldati
americani di stanza in Europa si dedicarono a massicci saccheggi. (92) Una
delle raccomandazioni chiede al governo federale «di mettere a punto, in
concerto con le organizzazioni militari dei veterani, un programma volto a
promuovere la restituzione volontaria dei beni delle vittime di cui gli ex
membri delle forze armate potrebbero essersi impossessati come souvenir di
guerra». Senza dubbio i veterani stanno già facendo la fila per restituire il
bottino. Una delle raccomandazioni conclusive chiede agli Stati Uniti di
«conservare il loro ruolo di primo piano nell'incoraggiare l'impegno della
comunità internazionale ad affrontare i problemi legati alla restituzione dei
beni». Dopo il rapporto sarebbe ragionevole giungere alla conclusione che il
ruolo di primo piano dell'America è più una catastrofe che una benedizione.
***
Nel libro affermo che, durante i recenti negoziati
con la Germania, l'industria dell'Olocausto ha gonfiato sia il numero di ex
lavoratori schiavi ebrei vivi al termine della guerra sia il numero di quelli
ancora vivi oggi. È la stessa Claims Conference ad ammetterlo. Il professor
Yehuda Bauer, ex direttore dello Yad Vashem - il museo dell'Olocausto, oltre
che il principale istituto [270] israeliano di ricerca sull'Olocausto - lavora
oggi come consulente della Conferenza per l'educazione all'Olocausto. Nel suo
recente studio, Rethinking The Holocaust,
stima «che, alla fine della Seconda guerra mondiale, circa duecentomila ebrei
scamparono ai campi nazisti di concentramento e lavoro forzato e sopravvissero
alle marce della morte». Pur essendo molto più elevata delle stime consuete, la
cifra indicata da Bauer è inconciliabile con le asserzioni fatte dall'industria
dell'Olocausto durante i negoziati, secondo cui settecentomila lavoratori
schiavi ebrei sopravvissero alla guerra e centoquarantamila sono ancora vivi a
distanza di più dì cinquantanni. (93) Persino le organizzazioni dei
sopravvissuti accusano l'industria dell'Olocausto di aver ingigantito il numero
durante le trattative per poi ridimensionarlo una volta ottenuti i
risarcimenti: «Come mai il numero degli effettivi superstiti della Shoah è
stato esagerato in maniera cosi clamorosa durante i negoziati e come mai i
negoziatori avevano tanta paura che la stampa e gli oppositori tedeschi e
svizzeri potessero smentire le loro statistiche?» (94) L'inflazione supera
ormai quella del periodo di Weimar: J.D. Bindenagel, inviato speciale del
Dipartimento di Stato americano per i problemi legati all'Olocausto, ha infatti
dichiarato che «negli anni del dopoguerra molti milioni di vittime
dell'Olocausto furono catturate dietro la Cortina di ferro». (95)
[271] I tedeschi convinti che il pagamento delle
somme estorte e gli elogi pubblici tributati all'industria dell'Olocausto per
la sua irreprensibilità morale avrebbero chiuso una volta per tutte il capitolo
dei risarcimenti devono attendersi una sorpresa. L'industria dell'Olocausto ha
ora messo i suoi avidi occhi sui trecentocinquanta milioni di dollari stanziati
per una fondazione tedesca che promuova la tolleranza («Fondo per il faturo»).
A guidare la carica è il rabbino Israel Singer, vicepresidente della Claims
Conference. Affermando che «è dovere della comunità ebraica mettere in
discussione le parti della composizione con cui non si trova d'accordo», questo
ideatore della strategia del ricatto adottata dall'industria dell'Olocausto
dichiara: «Non credo che dovremmo giocare secondo le regole dei tedeschi». Non
c'è da meravigliarsi se, a quanto dice Singer, persino gli altri ebrei «mi
definiscono un gangster». (96)
Le parcelle dei legali che hanno lavorato
all'accomodamento tedesco ammontavano in totale a sessanta milioni di dollari.
I primi in classifica sono Melvyn I. Weiss e Michael Hausfeld, rispettivamente
con sette milioni e trecentomila e cinque milioni e ottocentomila dollari,
mentre almeno altri dieci hanno intascato oltre un milione. Il professor Burt
Neuborne dell'università di New York ha osservato che il suo onorario da cinque
milioni non era «particolarmente alto» (soprattutto se lo con[272]frontiamo con
la somma - compresa tra i cinque e i settemila dollari - assegnata dalla
composizione tedesca a un sopravvissuto di Auschwitz). Alle sue spalle, con
soli quattro milioni e trecentomila dollari, è Robert Swift, che ha preso con
filosofia il suo compenso «minimo sotto tutti i punti di vista»: «Non tutto
quel che si fa nella vita può essere misurato in dollari e centesimi». Cercando
conforto altrove, un intraprendente avvocato ha venduto la storia del suo
cliente a Mike Ovitz di HolIywood, ex presidente della Disney. Stuart Eizenstat
ha continuato a difendere le parcelle dei legali definendole «troppo modeste».
I sopravvissuti all'Olocausto la pensavano diversamente. «Se si fosse
risparmiata solo la metà della somma spesa per gli onorari degli avvocati,
ossia circa trenta milioni di dollari» ha commentato una delle loro
organizzazioni «quel denaro avrebbe potuto essere usato per creare uno o più
centri di assistenza sanitaria riservati ai sopravvissuti anziani e malati.
Queste parcelle esorbitanti sono una vergogna!» (97)
È tuttavia un errore concentrarsi esclusivamente sui
misfatti degli avvocati dell'Olocausto. Questa è infatti la principale
strategia adottata dall'industria dell'Olocausto per distogliere l'attenzione
da se stessa man mano che la scomoda verità viene a galla (negli Stati Uniti, dove
i legali si prendono insulti da tutti, il successo è quasi garantito). In
realtà, gli avvocati che hanno intentato azioni collettive hanno intascato meno
del due per [273] cento delle varie composizioni. I veri ladri sono i consigli
di amministrazione incrociati delle organizzazioni affiliate all'industria
dell'Olocausto, quali la Claims Conference e il Congresso Mondiale Ebraico
(CME).
Nell'Industria
dell'Olocausto, ho documentato il cattivo uso dei risarcimenti fatto dalla
Claims Conference sin da quando fu fondata nei primi anni Cinquanta. Nessuna di
queste accuse è mai stata confutata con argomentazioni valide, (98) e i recenti
sviluppi si conformano allo schema osservato. Nel novembre del 2001, il CME ha
dichiarato di aver raccolto undici miliardi di dollari in risarcimenti per
l'Olocausto e prevedeva che alla fine la cifra avrebbe sfiorato i quattordici
miliardi (non è chiaro se tali somme comprendano le decine di migliaia di
proprietà dei valore di svariati miliardi che la Claims Conference contesta
tuttora in Germania). Al momento, l'industria dell'Olocausto «non discute se,
ma come» usare i «probabili miliardi» di «avanzi» che rimarranno una volta
«uscite di scena» le vittime bisognose. (99) È difficile immaginare come faccia
a sapere che vi saranno «probabili miliardi» di rimanenze se - e questa è
un'altra delle sue affermazioni - i sopravvissuti all'Olocausto indigenti e
ancora vivi sono quasi un milione e «decine di migliaia» saranno «probabilmente
in vita» nel 2035. (100)
L'industria dell'Olocausto
prevede dunque rimanenze miliardarie asserendo al tempo stesso di non potersi
permettere la creazione di centri di assistenza sanitaria per le [274] vittime
più anziane. Denunciando lo spreco dei risarcimenti, nel giugno del 2001
ventimila vittime dell'Olocausto hanno fondato una nuova organizzazione, la
Holocaust Survivors Foundation - USA, «per garantire che i miliardi di dollari
raccolti per i superstiti vengano versati ai superstiti». Leo Rechter,
segretario della Fondazione, afferma che i sopravvissuti all'Olocausto e i
«governi stranieri» sono stati «indotti per decenni a credere» che la Claims
Conference «avesse a cuore i NOSTRI interessi». David Schächter, presidente
della Fondazione, lamenta che molti superstiti anziani vivono in «condizioni disperate»
mentre «la Claims Conference ha messo a loro disposizione solo una minima
percentuale dei miliardi che ha acquisito in nome dei sopravvissuti
all'Olocausto». È «ingiusto» che i superstiti non
ricevano assistenza sanitaria, afferma Joe Sachs, direttore della Fondazione,
«mentre si spendono milioni per la creazione di istituzioni in località remote
come la Siberia e si sperperano centinaia di milioni per progetti dalle dubbie
finalità in tutto il mondo». Tra queste iniziative ambigue figurano «un milione
e cinquecentomila dollari per il "Teatro yiddish" di Tel Aviv», «un
milione per il "Mordechai Anielevich Memorial" in Israele»,
«centinaia di migliaia di dollari per uno studio sulla storia delle yeshivot
prebelliche» e «oltre un milione di dollari per una "Fondazione in memoria
della cultura ebraica" a New York, una cifra pari al doppio delle somme
recentemen[275]te stanziate per tutti i sopravvissuti bisognosi della Florida».
Rimproverando l'industria dell'Olocausto per «essersi intromessa e aver cercato
di procurarsi denaro per i suoi enti benefici preferiti anziché metterlo a
disposizione delle persone nel cui nome l'ha ottenuto», Rechter ha posto ai
negoziatori una domanda retorica: avevano comunicato ai loro interlocutori che
una «considerevole fetta» dei risarcimenti non sarebbe stata spesa per i
sopravvissuti bensì per i loro «progetti preferiti»?
«I rappresentanti delle organizzazioni ebraiche, che
hanno condotto con clamore la nobile
campagna per l'istituzione dei fondi di risarcimento, non hanno agito spinti da
un profondo interesse verso i sopravvissuti all'Olocausto e i loro eredi» ha
detto alla Knesset israeliana il deputato Micnael Kleiner, mentre gli ebrei
bisticciavano per il bottino dell'Olocausto. «Il vero scopo non consisteva nel restituire
i beni ebraici ai legittimi proprietari. I rappresentanti delle organizzazioni
hanno fatto tutto il possibile per garantire che il denaro e le proprietà
ebraiche finissero invece nei loro forzieri. In tal modo, speravano di dare
nuova linfa ai loro enti e alla vita lussuosa cui sono ormai abituati.»
Analogamente, l'autorevole quotidiano israeliano «Haaretz» ha osservato: «A
volte sembra che, nelle mani delle grandi organizzazioni ebraiche, l'Olocausto
si sia trasformato in uno strumento per ottenere fondi con cui finanziare i
progetti cari ai leader di quegli organismi». (101)
[276]***
L'industria dell'Olocausto ha designato
l'«educazione all'olocausto» quale principale beneficiaria dei risarcimenti.
Nel libro ho scritto che gran parte della letteratura sull'Olocausto non ha
«alcun valore didattico». Deplorando che «le case editrici americane hanno
pubblicato una pletora di volumi inutili, tra cui le testimonianze di
sopravvissuti che a quel tempo avevano sette anni», Hilberg osserva che «negli
Stati Uniti nessuno è davvero interessato a imparare qualcosa di nuovo riguardo
a questo periodo storico» e che «oggi gli unici studi seri sull'Olocausto
provengono dalla Germania». (102)
Una rapida panoramica della recente letteratura
sull'Olocausto conferma i giudizi più severi:
I. L'industria dell'Olocausto ha
scelto Never Again: A History of the
Holocaust [Mai più. Una storia dell'Olocausto], l'ultimo contributo di Sir
Martin Gilbert alla letteratura sull'Olocausto, per la distribuzione in
Lituania. Un'appendice al libro offre una perla di sciovinismo insulso fino
all'imbarazzo: «Penso che gli ebrei d'Europa siano stati il popolo più
intelligente della terra perché volevano conoscere il mondo che li circondava».
Prendiamo in considerazione i titoli di alcuni
capitoli: «La rivolta nel ghetto di Varsavia», «Le rivolte nei ghetti», «La
fuga verso i partigiani», «I movimenti di resi[277]stenza ebraici», «Gli ebrei
negli eserciti alleati», «Gli ebrei nel movimento di resistenza nazionale», «Le
rivolte nei campi di sterminio», «Gli ebrei durante la rivolta di Varsavia del
1944». Dagli ebrei che vanno incontro alla morte «come pecore al macello» siamo
ora passati agli ebrei che vanno incontro alla morte come dei «Rambowitz».
(103)
2.
Come abbiamo già detto, Yehuda Bauer è l'ex
direttore della Sezione ricerche sull'Olocausto dello Yad Vashem e al momento è
consulente, per l'educazione all'Olocausto, della Claims Conference. In Rethinking the Holocaust [Ripensando
all'Olocausto], il coronamento del lavoro di una vita, riesce ad affermare e
negare al tempo stesso ciascuna delle principali tesi sullo sterminio nazista
degli ebrei: può e non può essere compreso razionalmente; è e non è scaturito
dall'Illuuminismo e dalla Rivoluzione francese; è e non è paragonabile allo
sterminio degli zingari L'autore formula bizzarre critiche riguardo a «gran
parte della storiografia tedesca» sull'Olocausto nazista perché «essa trascura
la strage in sé soffermandosi invece su chi decise che cosa e quando in merito
al massacro degli ebrei». Bauer ha infine un'illuminante intuizione sulle
motivazioni di Himmler: «Se tutti gli esseri umani recano in sé i semi degli
atteggiamenti che definiamo positivi e negativi, possiamo descrivere Himmler
come un individuo in cui gli elementi negativi si manifestarono in forma [278]
estrema, senza dubbio in seguito alla confluenza di fattori sociali e
personali-individuali». (104)
3.
Saul Friedländer, uno storico dell'Olocausto, ha
elogiato lo studio di Guenter Lewy, intitolato The Nazi Persecution of the Gypsies [La persecuzione nazista degli
zingari], per la sua «profonda compassione». Secondo la tesi centrale del
libro, durante la Seconda guerra mondiale gli zingari non soffrirono quanto gli
ebrei, anzi non furono nemmeno vittime di un genocidio. Ecco qui le
argomentazioni dell'autore: gli zingari furono sterminati senza pietà dagli
Einsatgruppen come gli ebrei, ma solo perché sospettati di spionaggio; gli
zingari furono deportati ad Auschwitz come gli ebrei, ma solo «per toglierli di
mezzo, non per ucciderli»; gli zingari furono gassati a Chelmno come gli ebrei,
ma solo perché avevano contratto il tifo; gran parte degli zingari
sopravvissuti fu sterilizzata come gli ebrei, ma non per impedirne la
moltiplicazione bensì solo per «impedire la contaminazione del "sangue
tedesco"». Non è difficile immaginare come reagirebbero il pubblico e gli
intellettuali se sostituissimo «zingari» con «ebrei» nel volume di Lewy. (105)
4.
L'ultimo libro di Richard Overy, un illustre
docente britannico di storia contemporanea, si intitola Interrogations. The
Nazi Elite in Allied Hands, 1945
[Interrogatori. Come gli Alleati hanno scoperto la
terribile realtà del [279] Terzo Reich]. In questa raccolta di documenti
riguardanti i processi di Norimberga - per il resto annotata con dovizia di
particolari -, Overy riporta senza commenti critici la testimonianza di Franz
Blaha, un medico ceco imprigionato a Dachau, secondo il quale lì ebbero luogo
«molte esecuzioni con il gas, le facilazioni o le iniezioni». Si dà il caso che
Blaha sia stato l'unico a testimoniare sulla camera a gas di Dachau durante il
processo svoltosi in quella stessa città nel 1945. In precedenza aveva
dichiarato che vi era stata una prova con il gas e aveva aggiunto di aver visto
nella camera due persone morte, due svenute e tre in piedi. In tribunale
testimoniò di aver scorto tra le otto e le dieci persone, tre delle quali
ancora vive. Solo più tardi, a Norimberga, denunciò numerose esecuzioni con il
gas. È proprio questa sciatteria nel controllo delle fonti a rendere credibile
la negazione dell'Olocausto. Esaminare le fonti con meticolosità è senza dubbio
più importante che cercare di suscitare clamore intorno alle minacce dei
negatori dell'Olocausto. (106)
Lo scopo dell'educazione all'Olocausto consiste
naturalmente nell'«imparare le lezioni dell'Olocausto». Ma quali sono le
lezioni che l'industria dell'Olocausto vuole trasmetterci? Una di esse insegna
a dare la priorità alla lotta contro l'antisemitismo tranne nei casi in cui è
più conveniente non farlo. Cosi, mentre esortava la co[280]munità mondiale a
boicottare l'Austria dopo che il Partito liberale di Jörg Haider era entrato
nella coalizione alla guida del paese, l'industria dell'Olocausto negoziava
tranquillamente un accordo di risarcimento a Vienna. Dopo aver raggiunto un
compromesso vantaggioso, Stuart Eizenstat ha coperto il governo austriaco di
elogi per aver «dimostrato, non solo all'Austria ma anche al resto dell'Europa
e al mondo intero, che è possibile riconciliarsi con il proprio passato e
rimarginare le ferite anche molti decenni dopo». (107) Un'altra lezione
importante insegna a «non confrontare» l'Olocausto con altri crimini tranne nei
casi in cui il confronto è conveniente dal punto di vista politico. Così, un
periodico dell'industria dell'Olocausto ha paragonato l'attacco dell'11
settembre contro il World Trade Center al «travaglio della Seconda guerra
mondiale e alle sofferenze della Shoah», mentre l'«Atlantic Monthly» si è
domandato chi occupasse il posto più alto nella «gerarchia del male» tra Bin
Laden e Hitler, e il «New York Times Magazine» ha affermato che il
fondamentalismo islamico è «un nemico più formidabile del nazismo». (108)
Un'altra lezione insegna a ricordare il genocidio nazista ma a dimenticare
tutti gli altri. Shimon Peres, il ministro degli Esteri israeliano, ha così
liquidato lo sterminio sistematico degli armeni da parte dei turchi come
semplici «chiacchiere» e ha definito «insignificante» il bilancio armeno della
strage. (109) Un'altra lezione insegna a vigilare [281] sui crimini contro
l'umanità a eccezione di quelli commessi dal nostro governo. Così, mentre
l'incontrollabile potere statunitense semina distruzione tra gran parte
dell'umanità, l'Holocaust Memorial Council «ha invitato gli Stati Uniti a
concentrarsi sulla "minaccia di genocidio" in Sudan». (110) Chi sta
imparando dall'Olocausto la lezione più istruttiva è infine l'esercito
israeliano: per soffocare la resistenza palestinese a un'occupazione che dura
ormai da trentacinque anni, un alto ufficiale israeliano ha chiesto alle truppe
di «analizzare e interiorizzare gli insegnamenti derivanti [...] dal modo in
cui l'esercito tedesco combatté nel ghetto di Varsavia (111)».
A mio parere, l'unica vera lezione dell'Olocausto è
semplicissima: dire la verità. Nell'attuale clima di intimidazione e
«correttezza verso l'Olocausto», il sacrificio personale e professionale può
essere notevole. Ma il prezzo del silenzio è chiaramente più alto. Le menzogne
e i travisamenti dell'industria dell'Olocausto alimentano la negazione
dell'Olocausto; i suoi ricatti e la sua avidità fomentano l'antisemitismo; la
sua ipocrisia e la sua ambivalenza precludono la diffusione di principi
significativi. Prima l'industria dell'Olocausto verrà chiusa, e meglio staremo
tutti quanti, ebrei e non ebrei.
Norman G.
Finkelstein febbraio 2002 New York
conclusione,
appendici
Note
1. Adam
Hochschild, King Leopold's Ghost,
Boston 1998.
2. Wiesel, Against Silence, III volume, 190; cfr.
I volume, 186, II volume, 82, III volume, 242 e Wlesel, And the Sea, 18.
3. Novick, The Holocaust, 230-1.
4. «New
York Times», 25 maggio 1999.
5. Novick, The Holocaust, 15.
6. John
Toland, Adolf Hitler, New York 1976,
702. Joachim Fest, Hitler, New York
1975, 214, 650. Si veda anche Finkelstein,
Image and Reality, capitolo 4.
7. Si
veda, per esempio, Stefan Kühl, The Nazi
Connection, Oxford 1994.
8. Si
veda, per esempio, Leon F. Litwack,
Trouble in Mind, New York 1998, specialmente i capitoli 5 e 6. La gloriosa
tradizione occidentale ha nessi profondi con il nazismo. Per giustificare lo
sterminio degli handicappati - che precorse la Soluzione Finale - i medici
nazisti tirarono in ballo il concetto di «vita indegna di essere vissuta» (lebensunwertes Leben). Nel Gorgia, Platone scrisse: «Non credo che
la vita sia degna di essere vissuta se il corpo di una persona versa in una
condizione orribile». Nella Repubblica,
Platone sanciva l'assassinio dei bambini menomati. Analogamente, l'opposizione
di Hitler nel Mein Kampf al controllo
delle nascite perché fà a meno della selezione naturale fu prefigurata da
Rousseau nel suo Discorso sull'origine e
i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini. Immediatamente dopo la
Seconda guerra mondiale, Hannah Arendt rifletteva sul fatto che «la corrente
sotterranea della storia occidentale è finalmente venuta alla superficie
usurpando la dignità della nostra tradizione» (Le origini del totalitarismo, LXXXII).
9. Si
veda, per esempio, Edward Herman e Noarn Chomsky, The Political Economy of Human Rights, I volume: The Washington Connection and Third World
Fascism, Boston 1979, 129-204.
10. «Response»,
marzo 1983 e gennaio 1986.
11. Noam
Chomsky, Turning the Tide, Boston
1985, 36 (citazione di un'intervista a Wiesel concessa alla stampa ebraica).
Berenbaum, World Must Know, 3.
12. Sander
Thoenes, Martial Law-Habibie's Last Card,
in «Financial Times», 8 settembre 1999.
13. Novick, The Holocaust, 255.
14. Si
veda, per esempio, Geoff Simons, The
Scourging of Iraq, New York 1998.
15. Novick,
The Holocaust, 244, 14.
16. A
questo proposito si veda in particolare Chaumont, La concurrence, 316-18.
17. Si
veda, per esempio, Carl N. Degler, In
Search of Human Nature, Oxford 1991, 202 e seguenti.
18. Si
veda, per esempio, Carl N. Degler, In
Search of Human Nature, Oxford 1991, 202 e seguenti.
19. Altrettanto
disgustoso è fare paragoni con l'Olocausto, come propone Michael Berenbaum,
soltanto per «dimostrarne l'unicità» (After
Tragedy, 29).
20. Zuckerman,
A Surplus of Memory, 210.
21. Mi
riferisco qui sia al cosiddetto Historikerstreit
sia alla corrispondenza tra Saul Friedländer e Martin Broszat. In entrambi i
casi la controversia è largamente incentrata sulla natura assoluta o relativa
dei crimini nazisti; per esempio, la pertinenza del confronto con il gulag. Si
vedano Peter Baldwin (a cura di), Reworking
the Past; Richard J. Evans, In
Hitler's Shadow, New York 1989; James Knowlton e Truett Cates, Forever in the Shadow of Hitler?,
Atlantic Highlands, NJ 1993; Aharon Weiss (a cura di), «Yad Vashem Studies
XIX», Gerusalemme 1988.
22. Questo
testo è comparso come appendice alla prima edizione tedesca dei volume (Die Holocaust-Industrie, Piper,
München-Zúrich 2001).
23. Per
questo paragrafo e per quello successivo, si vedano Joan Gralla, Holocaust
Foundation Set
for Restitution Funds, Reuters, 22 agosto 2000; Michael j. Jordan,
Spending Restitution Money Pits Survivors Against Groups, Jewish
Telegraphic Agency, 29 agosto 2000; in «NAHOS» (rivista dell'Associazione
nazionale dei sopravvissuti all'Olocausto figli di ebrei), 10 settembre e 6
ottobre 2000; Marilyn Henry, Proposed
«Foundation for Jewish People» Has No Cash, in «Jerusalem Post», 8
settembre 2000;
Joan Gralla, Battle
Brews Over Holocaust Compensation, in «Reuters», 11 settembre
2000; Shlomo Shamir, Government to Set Up New Fund for Holocaust
Payments, in «Haaretz», 12 settembre 2000; Yair Sheleg, Burg Honored at Controversial NY Dinner, in
«Haaretz», 12 settembre 2000; E.J. Kessler, Hillary
the Holocaust Heroine?, in «New
York Post», 12 settembre 2000; Melissa Radler, Survivors Get Most of Cash in Shoah Fund, in
«Forward», 17 settembre 2000; The WJC
Defends Event Panned by Commentary, in «Jewish Post», 20 settembre 2000.
24. Remarks by the President During Bronfman
Gala, Ufficio dell'addetto stampa della Casa Bianca, distribuito
dall'Ufficio per i programmi informativi internazionali, ministero degli Esteri
statunitense (http://usinfo.state.gov).
25. Il
piano è stato elaborato da Judah Gribetz, l'ex presidente del Consiglio per le
relazioni con le comunità ebraiche di New York e attuale membro del consiglio
d'amministrazione del Museum of Jewish Heritage di New York, un monumento vivente
all'Olocausto. È stato nominato «responsabile straordinario» presso la Corte
dell'East District di New York dal giudice Edward Korman, che la presiedeva
durante la controversia legale nella class action contro la Svizzera. Il piano
completo è stato pubblicato su Internet all'indirizzo
http://www.swissbankclaims.com/.
26. Statement of Burt Neuborne, nell'appendice
al piano Gribetz. In quanto consulente capo, Neuborne era stato incaricato di
elaborare le «teorie giuridiche» sostenute dall'industria dell'Olocausto
durante la controversia legale contro la Svizzera.
27. Raller,
Survivors Get Most of Cash in Shoah Fund.
28.
È interessante ricordare che Raul Hilberg, la
principale autorità sullo sterminio nazista degli ebrei, ha accusato
espressamente il Congresso Mondiale Ebraico di avere ricattato gli svizzeri: «È
stata la prima volta nella storia in cui gli ebrei si sono serviti di un'arma
che possiamo solo chiamare ricatto». In una dichiarazione che avrebbe dovuto
sostenere la proposta per l'approvazione dell'accordo con la Svizzera, Burt
Neuborne, visibilmente preoccupato per il presunto ricatto («Alcuni potrebbero
essere tentati di considerare una forma di ricatto i pagamenti legittimi
stabiliti mediante un accordo.») ha esortato il giudice Korman a negare quanto
aveva stabilito in giudizio (Holocaust
Expert Says Swiss Banks Are Laying Too Much, Deutsche Presse-Agentur, 28
gennaio 1999;
Declaration of
Burt Neuborne, Esq., 5 novembre 1999, paragrafo 8; Edward R. Korman, In re Holocaust Victim Assets Litigation, Corte
distrettuale degli Stati Uniti, East District di New York, 26 luglio 2000,
23-24).
29. Korman,
In re Holocaust Victim Assets Litigation,
19.
30. Burt
Neuborne, Memorandum of Law Submitted by
Plaintiffs in Response to Expert Submissions Filed By Legal Academics Retained
By Defendants, Corte distrettuale degli Stati Uniti, East District di New
York, 14 giugno 1997, 68 (cfr. anche 62-64). Più avanti: parere Neuborne.
31. Per
la non rimborsabilità sancita dall'accordo finale, cfr. piano Gribetz, pagina
12 nota 18: «Occorre ricordare che le banche imputate o altre istituzioni
elvetiche non si vedranno restituire nessuna parte dell'ammontare della
composizione di un miliardo e duecentocinquanta milioni di dollari».
32. Piano
Gribetz, pagine 11 («importanza decisiva»), 13- 14, 93, 101-104.
33. Parere
Neuborne, pagine 3, 6-7, 11-12, 28-31, 34-35, 43, 47-48. Nel documento si
ammette che le banche svizzere avrebbero dovuto essere citate in giudizio
soltanto se avessero tratto profitto «consapevolmente» dall'arricchimento
illegittimo dei nazisti: «Se si riconosce che le banche imputate non erano a
conoscenza di nulla, le azioni degli accusati non giustificherebbero la pretesa
restituzione dei profitti illegittimi», 34.
34. Piano
Gribetz, pagine 23, 29, 113-114, 118 nota 345, 128-129 nota 371, 145-148;
appendice G («The Looted Assets Class»), pagine G-3, G-43, G-57; appendice H
(«Slave Labor Class I»), pagine H-52, H-57-58.
35. Ivi,
appendice J («The Refugee Class»), pagina'J-26 nota 85. Da una nota apprendiamo
anche che, secondo Seymour J. Rubin, una delle principali autorità in questo
campo, «la Svizzera accolse molti più rifugiati di qualsiasi altro Paese in
rapporto al proprio numero di abitanti, al contrario degli Stati Uniti, che non
solo negarono l'ingresso ai disperati della St. Louis, ma evitarono anche
sistematicamente di raggiungere le pur modeste quote d'immigrazione
disponibili», pagina J-5. In una lettera alla rivista «Nation», Burt Neuborne
ha dichiarato che i rifugiati cui era stato negato l'ingresso in Svizzera
durante la Seconda guerra mondiale avrebbero ora ottenuto un risarcimento e ha
affermato con rammarico: «Vorrei solo che si potesse imporre un'analoga
sanzione agli Stati Uniti, poiché anch'essi si rifiutarono di accogliere quegli
uomini durante la loro fuga disperata dalla persecuzione nazista» (5 ottobre
2000). A parte la viltà e l'ipocrisia, che cosa potrebbe avere impedito al
consulente capo dell'industria dell'Olocausto di far valere tale
rivendicazione?
36. Piano
Gribetz, pagina 89. La citazione è tratta dal decreto giudiziario del giudice
Korman con cui è stato approvato definitivamente l'accordo di composizione.
37. Ivi,
appendice C («Demographics of "Victim or Target" Groups»), pagina C-
13.
38. Ivi,
135-136.
39. Ivi,
appendice C, pagina C-12; appendice F («Social Safety Nets»), pagina F- 15.
40. Ukeles
Associates Inc., documento #3 (riveduto), Projection
of the Population of Victims of Nazi Persecution, 2000-2040, 31 maggio
2000.
41. Piano
Gribetz, 9; appendice C, pagina C-8; appendice E («risarcimento per
l'Olocausto»), pagine E-89 ed E-90 nota 282. La cifra di duecentocinquantamila
persone è stata calcolata quando è stato distribuito il denaro del «Fondo
speciale per le vittime bisognose dell'Olocausto», istituito dagli svizzeri nel
febbraio 1997.
42. Ivi,
appendice C, pagina C-7, tabella 3. In una nota del piano, si ammette che
«nell'ex Unione Sovietica vi sono relativamente pochi sopravvissuti ai campi di
concentramento, ai ghetti o ai campi di lavoro» (appendice E, pagina E-56 nota
150).
43. Ivi
, pagine 122-123; appendice E, pagina E-138; appendice E pagina F-4 nota 13.
44. Ivi,
appendice E, pagina E-56.
45. Steve
Paulsson, Re: Survivor Article, disponibile
all'indirizzo internet http://HHolocaust@n~net.msu.edu/, 28 settembre 2000.
46. Piano
Gribetz, pagina 135. Si noti che nel piano anche il numero dei veri
sopravvissuti all'Olocausto subisce un notevole incremento. Vi si afferma
infatti che al momento circa centosettantamila ex lavoratori schiavi ebrei
riscuotono una pensione dalla Germania (piano Gribetz, appendice H, «Slave
Labor Class I», pagine H-5-6). Si calcola però che solo uno su quattro di
questi individui percepisca una pensione da quel Paese. Oggi il numero dei
lavoratori schiavi ebrei ancora in vita si aggira dunque intorno ai
settecentomila, mentre il numero dei lavoratori schiavi ebrei ancora vivi alla
fine della guerra era pari a circa due milioni e ottocentomila persone. Gli
studiosi partono di solito dal presupposto che al termine dei conflitto fossero
sopravvissuti circa centomila lavoratori schiavi ebrei, di cui oggi restano
ancora in vita forse alcune decine di migliaia.
47. Ivi,
pagine 7, 25-27, 83-84, 118-119, 138-139, 149, 154 e «Summary of Major
Holocaust Compensation Programs». Oltre a quanto detto prima, il piano
giustifica tale suddivisione in maniera tautologica «con dati demografici
attuali, poiché le vittime ebree sono giunte frattanto a rappresentare la parte
prevalente delle "vittime reali o designate sopravvissute alla persecuzione
nazista", così come definite nell'accordo di composizione», numero 119.
Gli ebrei costituiscono pertanto la «parte prevalente» solamente perché la
categoria «vittime reali o designate » viene intesa in tal senso.
48. Ivi,
pagina 15. La medesima affermazione viene ripetuta parola per parola alle
pagine 98-99.
49. La
commissione Volcker ha consigliato di pubblicare gli estremi di circa
venticinquemìla conti bancari che con ogni probabilità sono appartenuti a
vittime della persecuzione nazista. L'«attuale valore complessivo» dei
diecimila conti su cui esistono alcune informazioni è compreso tra i
centocinquanta e i duecentotrenta milioni di dollari. Se si esegue una
proiezione basata su tali stime e riferita a tutti i venticinquemila conti, si
ottiene una cifra tra i trecentosettantacinque e i cinquecentosettantacinque
milioni di dollari. A giudicare da quanto è accaduto durante i passati
procedimenti del tribunale per la risoluzione delle rivendicazioni, verranno
sollevate rivendicazioni legittime solo su metà dei venticinquemila conti, e la
metà del denaro ivi depositato dovrebbe ammontare a una cifra che varia dai
centottantotto ai duecentottantotto milioni di dollari. La lista dei
venticinquemila contiene perlopiù non conti inattivi, bensì conti chiusi, i cui
nominativi fanno pensare a vittime dell'Olocausto. La commissione VoIcker è
giunta alla conclusione che «non esistono prove [...] di sforzi coordinati
volti ad accantonare il patrimonio delle vittime della persecuzione nazista per
scopi non giustificati». Si può dunque dedurre con certezza che quasi tutti i
conti chiusi siano stati chiusi regolarmente dai proprietari, dai loro eredi o
da delegati legittimi e attendibili e che il tribunale riconoscerà solo poche
delle rivendicazioni su detti conti. Con ogni probabilità, l'ammontare
complessivo delle rivendicazioni legittime sui venticinquemila conti sarà
pertanto inferiore alla stima che oscilla tra i centottantotto e i
duecentottantotto milioni, per fissare i quali si era ipotizzato che tutti i
conti fossero inattivi e che fossero legittime le rivendicazioni relative alla
metà degli stessi (piano Gribetz, pagine 94 nota 298, 96-97, 105-106 nota 326;
commissione indipendente di personalità illustri [commissione VoIcker], Report on Dormant Accounts of Victims of
Nazi Persecution in Swiss Banks, Berna 1999, pagina 13, paragrafo 41 [a]).
50. Ivi,
pagine 12, 19-20. A pagina 12 si stabilisce che «gli importi residui dopo la
composizione dovranno essere ripartiti tra le altre [...] categorie
dell'accordo, per esempio «proprietari derubati», Iavoratori schiavi» e
"rifugiati"». Come si dimostra più avanti, le somme destinate alla
categoria «Proprietari derubati» non sono state versate direttamente ai
sopravvissuti all'Olocausto, bensì a organizzazioni ebraiche promotrici di
progetti legati all'Olocausto nazista. Alle pagine 19-20, il piano stabilisce
inoltre che «é anche possibile utilizzare una parte dei denaro residuo per
attuare alcuni dei progetti proposti in ambito culturale o educativo oppure a
fini commemorativi, da sottoporsi all'attenzione del responsabile
straordinario».
51.
Per essere più precisi, il piano dispone che la
suddivisione dei denaro avanzato dagli ottocento milioni di dollari possa
cominciare solo una volta verificate tutte le rivendicazioni sui venticinquemila
conti. Il tribunale ha impiegato ben tre anni per confrontare diecimila
rivendicazioni con la precedente lista separata di
cinquemilaseicento conti svizzeri. Nel piano si dice
che, con ogni probabilità, verranno presentati oltre ottantamila reclami per la
lista dei venticinquemila conti. Il documento prevede inoltre che i reclami non
vengano verificati solo a fronte di quella lista pubblicata, ma anche rispetto
a milioni di altri conti elvetici che non presentano alcun legame evidente con le
vittime dell'Olocausto. Anche nell'ipotesi in cui il lavoro del tribunale
proceda senza intoppi, trascorreranno senza dubbio molti anni prima che si
giunga a una soluzione (piano Gribetz, pagine 91, 94 nota 299, 105-106 nota
126). Se si tralasciano le vittime dell'Olocausto titolari di conti inattivi,
il documento prende solo misure vaghe e limitate in merito agli eredi (pagine
18-19 e appendice D [«Eredi»1).
52. Piano
Griberz, pagine 16-17.
53. Ivi,
pagine 25-26, 120-121, 119-138.
54. Ivi,
pagine 18, 27, 116, appendice C, pagina C- 10, allegato 3 all'appendice C,
pagina 1 (i «questionari originali» sono stati distribuiti alle «vittime reali
o designate della persecuzione nazista» dopo l'approvazione della composizione
con la Svizzera da parte del giudice Korman). Raul Hilberg, che da bambino
fuggì dall'Austria con i genitori, ha espresso la sua disapprovazione verso le
eccessive pretese avanzate dall'industria dell'Olocausto nei confronti delle
banche elvetiche; in un'intervista comparsa di recente ricorda: «Negli anni
Trenta gli ebrei erano poveri. La mia famiglia apparteneva al ceto medio, ma
non avevamo alcun conto corrente in Austria, e tanto meno in Svizzera»
(«Berliner Zeitung», 4 settembre 2000).
55. Piano
Gribetz, pagine 29-31, 154-156.
56. Ivi,
pagine 35-39, 172-175.
57. Questo
testo è stato pubblicato come introduzione all'edizione economica tedesca dei
volume (Piper, Miinchen-Urich, 2002).
58. Friedrich
Meinecke, The German Catastrophe:
Reflections and Recollections, Cambridge 1950, trad. ingl. di Sidney B.
Fay, p. 53.
59. Dipartimento
di Stato degli Stati Uniti, Statement by Secretary of State Madeleine K.
Albright, 20 ottobre 2000.
60.Prima di partire per il
Vietnam nel novembre del 2000, il presidente Bill Clinton ha dichiarato che la
sua «unica priorità» consisteva nell'«ottenere il computo esatto dei
prigionieri di guerra americani e degli americani dispersi nell'Asia
sudorientale». In precedenza, il «New York Times» aveva riferito che Clinton
sarebbe stato «il primo presidente a mettere piede sul suolo dei Vietnam dalla
fine della guerra in quel paese, guerra che era costata la vita a
cinquantottomila americani». Per fortuna non è morto nessun vietnamita. Un
esperto americano che ha visitato la nazione qualche mese dopo temeva che le
relazioni tra Stati Uniti e Vietnam potessero essere compromesse dalla
richiesta di aiuti umanitari formulata da Hanoi per il milione di vittime
vietnamite (tra cui centocinquantamila bambini) dell'Agent Orange: «Se le
bonifiche venissero considerate indispensabili, se l'assistenza sanitaria fosse
indispensabile, se il risarcimento fosse necessario, i costi sarebbero molto
elevati». Certo, Clinton si è «impegnato a fornire al Vietnam un sistema
informatico contenente dati sulle aree in cui l'esercito statunitense conservava
e spruzzava l'Agent Orange». Persino Human Rights Watch, l'illustre
organizzazione umanitaria con sede negli Stati Uniti, si è limitata a
«invitare» Clinton a insistere affinché il Vietnam si assumesse le proprie
responsabilità riguardanti i diritti umani (David E. Sanger, Settling a Goal of Reconciliation, Clinton
Plans a November Trip to Vietnam, in «New York Times», 15 novembre 2000
[«cinquantottomila»]; Seth
Mydans, Clinton
to Try to Juggle Last Horrors and Future Hopes on Vietnam Visit, in
«New York Times», 16 novembre 2000 [«priorità»]; Official. 70 Percent of Agent
Orange child
victims bave not received aid, in «Associated Press», 30 maggio 2001
[«centocinquantamila»]; Tini Tran, U. S.,
Vietnam hold second meeting on Agent Orange research, in «Associated
Press», 2 luglio 2001 [«molto elevati»]; comunicato stampa, Human Rights Watch,
10 novembre 2000).
61. Karl
Jaspers, The Question of German Guilt, New
York 1961, trad. ingl. di E.B. Ashton, p. 45.
62. Adam
Smith, La ricchezza delle nazioni, Abbozzo,
Editori Riuniti, Roma 1991, tr. it. di Valentino Parlato. Vale la pena di
ricordare brevemente che, almeno nella giurisprudenza anglo-americana, una
«teoria della cospirazione» non è assurda prima
facie. Anzi, «la partecipazione a un piano comune o a una cospirazione»
finalizzati all'aggressione fu il cardine della tesi dell'accusa durante il
processo di Norimberga.
63. Tribunale per la risoluzione delle
rivendicazioni sui conti inattivi in Svizzera, «The
Claims Resolution Tribunal has fulfilled its initial
project», comunicato stampa, s.d;
Adam Sage e Roger Boyes, Swiss
Holocaust cash revealed to be myth, in «The Times», 13 ottobre 2001; Comment s'écrira désormais l'histoire de
l'holocauste? Entretien avec l'auteur de «La destruction des juifs d'Europe», in
Libération, Parigi, 15 settembre 2001 («cifre stratosferiche»); Holocaust Expert Says Swiss Banks Are Paying
Too Much, in
Deutsche Presse-Agentur, 28 gennaio 1999,
(«ricatto»). Dal novembre del 2001, il Tribunale ha accordato altri tre milioni
e cinquecentomila dollari a fronte dei ricorsi sui ventunmila conti restanti
(comunicazione personale di Viejo Heiskanen, segretario generale dei Claims
Resolution Tribunal, 21 gennaio 2002).
Tutti sono concordi nell'affermare che l'industria
dell'Olocausto ha adottato contro le compagnie di assicurazione europee una
strategia identica alla campagna di ricatto svizzera, argomento su cui tornerò
in una prossima pubblicazione. Nel frattempo, la International Commission on
Holocaust Era Insurance Claims (ICHEIC) è coinvolta in uno scandalo per aver
sperperato oltre trenta milioni di dollari in spese amministrative (tra cui
varie conferenze internazionali di durata non superiore alle ventiquattr'ore
con sistemazione in hotel a quattro stelle e voli in business class) distribuendo
solo tre milioni di dollari ai ricorrenti dell'Olocausto (Lawrence Eagleburger,
capo della commissione, intasca un compenso annuo pari a trecentocinquantamila
dollari). Non dando peso alle critiche, Elan Steinberg, direttore esecutivo del
Congresso Mondiale Ebraico, afferma che il «conto verrà pagato dalle banche e
dalle compagnie d'assicurazione», ossia «tocca ai goyim» (Yair Sheleg, Profits
of doom, in «Haaretz», 29 giugno 2001; Henry Weinstein, Spending by Holocaust Claims Panel
Criticized, in «Los Angeles Times», 17 maggio 2001). A parte la volgarità,
questa affermazione è quasi sicuramente falsa: in base alle condizioni della
composizione tedesca, le spese amministrative vengono infàtti dedotte dal
totale di cento milioni di dollari assegnato ai detentori di polizze. Non ci
meraviglia che ora l'industria dell'Olocausto chieda agli assicuratori tedeschi
di pagarle anche le vacanze.
64. Pierre
Heumann, Israel fordert neuen
Bankenvergleich, in «Weltwoche», 10 gennaio 2002 («non mi fido», «rinegoziato»).
65. Agreement between the Govemment of the
United States of America and the
Govemment of
France concerning Payments for Certain Losses Suffered Duríng World War II, 18
gennaio 2001; Jonathan Wright, U.S.,
France sign deal on jewish bank claims, in Reuters, 18 gennaio 2001
(«scioccato»). Oltre a introdurre una procedura analoga a quella del CRT per la
risoluzione dei ricorsi sui conti inattivi, i francesi hanno destinato circa
cento milioni di dollari (equivalenti a cento milioni di euro) a una fondazione
per l'Olocausto.
66. Per
i retroscena, cfr. p. 119 dell'edizione inglese in brossura. La commissione è
stata costituita al culmine delle pressioni statunitensi sulle banche svizzere
e a fronte delle critiche elvetiche secondo cui nemmeno gli Stati Uniti si
erano comportati in maniera irreprensibile per quanto concerneva la questione
dei risarcimenti dell'Olocausto.
67. Washington,
DC. (in seguito: P&R diviso in due parti: Findings and
Recommendations
e Staff Report. I numeri di pagina dello Staff Report sono indicati dalla
sigla SR.
68. P
& R, p. 5.
69. Vale
la pena di ricordare brevemente che il rapporto è costellato delle iperboli
tipiche delle pubblicazioni diffuse dall'industria dell'Olocausto. L'Olocausto
viene così definito «il maggior furto di massa della storia» (P&R, SR-3). Tutti gli Stati Uniti sorsero
sulle terre rubate alla popolazione indigena, e lo sviluppo industriale
americano fu alimentato per secoli dal lavoro non pagato degli afro-americani
nelle piantagioni di cotone: la Commissione ha tenuto conto di questi furti nei
suoi calcoli?
70. P
& R, pp. 4, 5.
71. Cfr.
pp. 111-112 dell'edizione inglese in brossura. Anche dopo la pubblicazione
delle conclusioni della commissione Volcker, il professor Gerald Feldman
dell'università di Berkeley ha continuato ad accusare la Svizzera di aver
«gestito i rapporti con gli ebrei in maniera assolutamente abominevole». Ha
addirittura lodato con parole stucchevoli l'impegno profuso dall'America per
ottenere il risarcimento dall'Europa omettendo però che, come vedremo in
seguito, la Commissione presidenziale - per la quale lui stesso aveva lavorato
come «consulente esterno» (P&R, p.
48) - aveva dimostrato che ogni capo d'accusa contro gli svizzeri era
applicabile agli Stati Uniti in misura uguale o maggiore e che la Commissione
non aveva presentato agli Stati Uniti analoghe richieste di risarcimento (Reparations, Restitution, and Compensation
in the Aftermath of National Socialism, 1945-2000, Holocaust Center of
Northern California, 10 febbraio 2001). Oltre ad avere contatti con la
Commissione presidenziale statunitense, Feldman è membro delle Commissioni
della Bank Austria e della Deutsche Bank; per le sue molteplici consulenze
sull'Olocausto, cfr. http://www.%20normanfinkelstein/.com alla voce «The
Holocaust Industry» (Prof. Gerald
Feldman: Another Holocaust huckster?).
72. P
& R, pp. 11-12; SR-167-168. Il
rapporto osserva anche: «I ricorsi delle vittime non sono stati facilitati da
alcuna percettibile attenuazione delle regole o degli iter [...] Gli eredi
hanno incontrato ancor più difficoltà dei titolari dei conti nominativi. Molti
documenti attestavano che il ricorrente iniziale era morto durante il processo
di ricorso. In quei casi [...] ulteriori indagini [...] hanno rallentato la
procedura».
73. P
& R, SR-170. Cfr. pp. 111-112
dell'edizione inglese in brossura.
74. Cfr.
p. 112 dell'edizione inglese in brossura.
75. P
& R, SR-4, SR-213-214.
76. Cfr.
pp. 97-98 dell'edizione inglese in brossura.
77. P
& R, p. 12; SR-6, SR-170.
78. Cfr.
pp. 96-7, 108-109 dell'edizione inglese in brossura.
79. P&R, SR-51.
80. Cfr.
pp. 97, 110-111 dell'edizione inglese in brossura.
81. P
& R, SR-214.
82. Per
i dettagli, cfr. pp. 89-120 passim dell'edizione inglese in brossura.
83. Ivi,
pp. 114-115.
84. P
& R, p. 7.
85. Ivi,
p. 19; SR-212-213.
86. La
Commissione si è limitata a condurre un «progetto pilota abbinando i nomi di
una breve lista di vittime dell'Olocausto a un elenco di proprietà confiscate e
gestite dallo Stato di New York [...] Tale procedura [...] ha portato alla luce
diciotto abbinamenti tra nomi di vittime e conti correnti inattivi nello Stato
di NewYork [...] Il valore di tali conti varia da qualche dollaro a cinquemila
dollari» (secondo la legge sulla confisca, le banche americane sono tenute a
trasferire al rispettivo governo statale i conti inattivi abbandonati). La
Commissione ha inoltre raggiunto un accordo con le maggiori banche
«consigliando loro i metodi migliori da adottare
durante la ricerca dei beni dell'Olocausto». In base a tale accordo, le banche
che si offrono di partecipare devono eseguire «analisi autonome» della
documentazione e informare i funzionari statali su tutti i conti inattivi
localizzati. Come è evidente, tra i «metodi migliori» e l'approfondita indagine
esterna imposta alle banche svizzere vi è un abisso. Cosa ancor più
interessante, l'accordo prevede persino che le banche partecipanti non siano
tenute a rivelare pubblicamente «l'identità dei titolari» degli «eventuali
conti individuati» (P&R, pp. 3, 1517).
87. P
& R, SR- 184, nota 249.
88. P
& R, SR-138. Dopo la guerra, la JRSO fu incaricata di recuperare i beni
dell'epoca dell'Olocausto rimasti senza eredi. Particolare interessante, la
Commissione riferisce che la JRSO reclamò per sé alcune proprietà appartenenti
ai sopravvissuti all'Olocausto e ai loro eredi:
Alcuni scoprirono che la Successor Organization
aveva reclamato le loro proprietà e si erano quindi rivolti all'ente per la
restituzione; nel 1955 la JRSO aveva ormai ricevuto quattromilaottocento
ricorsi di questo tipo. Dopo una consultazione interna, accettò di restituire
le proprietà ai ricorrenti pur avendo diritto di incamerare tali beni [...]
Impose tuttavia un onere di servizio per i richiedenti defunti al fine di
coprire le spese sostenute. Gli importi dipendevano dal rapporto di parentela
tra il ricorrente e l'ex proprietario e dal valore stimato della proprietà. Se
la JRSO aveva effettivamente recuperato una proprietà, tali costi subivano una
maggiorazione del dieci per cento (benché l'organizzazione l'abbia ridotta al
cinque per i ricorrenti meno agiati). Una donna criticò aspramente le autorità
statunitensi per aver «ceduto» la sua proprietà alla JRSO. Asseriva di aver
sentito parlare del termine di inoltro solo dopo che lo stesso era decorso e di
aver invece scoperto che «verrò punita perché l'esercito d'occupazione, per il
quale io e mio marito abbiamo già pagato molto, ritiene giusto sottrarmi la
proprietà e darla a chissà chi». La frustrazione e la rabbia espresse in questa
lettera rispecchiano lo stato d'animo di altri ricorrenti che non avevano
rispettato il termine; la JRSO fu sommersa da «richieste» e «proteste» per la
restituzione immediata delle proprietà (Pd-R, SR-156).
Cinquant'anni dopo, la jewish Claims Conference,
succeduta alla JRSO, adotta la medesima strategia per privare i legittimi eredi
ebrei delle proprietà nell'ex Germania Orientale. Cfr. i riferimenti citati a
p. 87 nota 11 dell'edizione inglese in brossura e Netty Gross, Times' Running Out, in «Jerusalem
Report», 7 maggio 2001. Gross cita le parole di un erede frodato: «Veniamo
derubati per la seconda volta. Prima dai nazisti e dai loro collaboratori
Adesso [...] veniamo invece vittimizzati dagli enti ebraici [...] che hanno a
cuore solo i loro interessi organizzativi». Una newsletter scritta da
superstiti dell'Olocausto disillusi sottolinea che la Claims Conference, pur
accusando le banche e le compagnie d'assicurazione europee di non aver
pubblicato elenchi completi dei potenziali ricorrenti e non aver cercato questi
ultimi, «non ha fatto alcuno sforzo per individuare gli ex titolari ebrei»
delle proprietà nella Germania Orientale e «non
ha mai pubblicato una lista di
proprietari ebrei» (NAHOS,
newsletter della National Association of Jewish Child Holocaust Survivors, 10
novembre 2001, e NAHOS, vol. 7, no. 14, 11 aprile 2001, p. 1 [corsivo
nell'originale]).
89. P
& R, SR-171. La citazione è tratta da una dichiarazione di Seymour Rubin
risalente al 1959 (per Rubin, cfr. pp. 115-116 dell'edizione inglese in
brossura). Alla fine, la JRSO approvò questa cifra perché, secondo Rubin, i
sopravvissuti all'Olocausto non avrebbero vissuto ancora a lungo: «II tempo
stringe per queste persone». L'industria dell'Olocausto ha suonato la stessa
solfa dei «tempo che stringe» durante l'indagine delle banche svizzere. Si
sarebbe potuto pensare che cinquaneanni dopo il tempo fosse già scaduto. Per
interessanti prove del fatto che il valore complessivo dei beni non reclamati
era molto più elevato, cfr. P&R, SR-6;
SR166-167; SR-172, SR-214-215.
90. P
& R, p. 7.
91. P
& R, pp. 21-26.
92. P
& R, SR-117 segg.
93. Yehuda
Bauer, Rethinking the Holocaust, New
Haven 2001, p. 246. Per le cifre della Claims Conference, cfr. pp. 127-128
dell'edizione inglese in brossura. Con ogni probabilità, solo il dieci per
cento circa dei lavoratori schiavi ebrei sopravvissuti alla guerra è ancora in
vita. Tale dato è avvalorato da recenti stime, secondo cui durante il conflitto
la Chiesa cattolica tedesca «usò diecimila forzati, di cui circa mille sono
ancora vivi», «New York Times», 8 novembre 2000. Per questa e altre questioni
inerenti, cfr. in particolare Gunnar Heinsohn, Judische Sklavenarbeiter Hitlerdeutschlands - Wie viele überlebten 1945
den Genozid und wie viele könnten im jahr 2000 noch leben?, Schriftenreihe
des Raphael-Lemkin-Instituts Nr. 9, Brema 2001; è interessante notare che,
secondo Heinsohn, i media tedeschi si astennero da qualsiasi discussione seria
sulle cifre riguardanti i lavoratori schiavi (p. 67).
94. NAHOS,
vol. 7, no. 18, 14 agosto 2001, p. 7. Cfr. anche NAHOS, vol. 7, no. 15, 11
maggio 2001, dove la Claims Conference viene rimproverata per aver manipolato
il numero dei sopravvissuti «a seconda delle esigenze politiche». Per esempio,
allo scopo di accelerare le negoziazioni, l'industria dell'Olocausto lamenta
sin dalla metà degli anni Novanta che «ogni giorno muore qualche sopravvissuto
all'Olocausto» e che ogni anno ne scompare «il dieci per cento». Eppure, il
numero di superstiti ancora in vita che la Claims Conference indica per
giustificare le sue richieste sempre più esose aumenta di anno in anno.
Probabilmente non conosceremo mai il numero effettivo degli ex lavoratori
schiavi ebrei, perché il governo tedesco ha deciso di esaminare solo in modo
frettoloso le domande di risarcimento presentate dalla Claims Conference (cfr.
la risposta del sottosegretario al ministero delle Finanze alla richiesta di
Martin Hohmann [CDU], 9 ottobre 2001)
95. Nun bitte auch Zahlen, in «Die Zeit»,
dicembre 2001.
96. Nacha
Cattan, Shoah «People» Fund Attacked, in «The Forward», 28 dicembre 2001
(«regole»); Yair Sheleg, Only He Knows
what Needs to Be Done, in « Haaretz», 9 novembre 2001 («gangster»).
97. Jane
Fritsch, $52 Million for Lawyers'Fees in
Nazi-Era Slave-Labor Suits, in «New
York Times», 15 giugno 2001
(Neuborne); Daniel Wise, $60 Million in
Fees Awarded to Lawyers Who Negotiated $5 Billion Holocaust Fund, in «New
York Law Journal», 15 giugno 200 1; Larry Neumeister, Millions in Legal Fees Awarded ín Slave Labor Cases, in «Associated
Press», 18 giugno 2001 (Eizenstat, Swift); Jonathan Goddard, Holocaust Lawyers Make Millions as the Survivors
Wait, in «London Jewish News», 22 giugno
2001 e Nazi
Story Sold, in «London Jewish
News», 6 luglio 2001 (Hollywood); The
Survivors Belong at the Head of the Table, in NAHOS, 1· novembre 2001,
ristampa di un articolo originariamente pubblicato in «Aufbau», 28 marzo 2001
(sopravvissuti).
Attaccando la prima edizione
dell'Industria dell'Olocausto, il professor Ulrich Herbert ha difeso
appassionatamente l'avvocato Michael Hausfeld sostenendo che senza di lui «i
lavoratori schiavi dell'Europa orientale non avrebbero avuto alcuna possibilità
di risarcimento». In realtà, le testimonianze documentali dimostrano con
chiarezza che il governo Schröder si era impegnato a risarcire i lavoratori
schiavi dell'Europa dell'Est príma che entrassero in scena gli avvocati
dell'Olocausto (già nel 1992 il governo Kohl aveva infatti pagato
volontariamente un milione e cinquecentomila marchi ai governi dell'Europa
orientale per risarcire le vittime del nazismo). L'eroe non celebrato non è
Hausfeld bensì Klaus von Munchhausen, che era stato il primo a premere sul
governo tedesco per conto dei lavoratori schiavi dell'Europa dell'Est già nel
1996, ma che l'industria dell'Olocausto aveva relegato a un ruolo secondario
durante i negoziati. Nella corrispondenza successiva, Herbert, ricercatore di
Hausfeld, ha ammesso che quest'ultimo era «fin troppo interessato a guadagnare
cifre inimmaginabili». Quando questa citazione è giunta alle sue orecchie,
Hausfeld ha minacciato - come era prevedibile di prendere
«misure idonee» qualora l'avessi
riportata (Ulrich Herbert, Vorschnelle
Begeisterung - Ein Kritikwürdiges Buch, eine nutzliche Provokation: Ober die
Thesen Norman Finkelsteins, in «Süddeutsche Zeitung», 18 agosto 2000; Klaus
von Munchhausen: «Esgeht nicht um die
Opfer, es gebt um Profit» [intervista], in «Der Tagesspiegel», 14 giugno
2000; Mark Spörer, Entschadigungsieistunger
an ehemalige NS-Zwangsarbeiter seit 1945, all'indirizzo
wwwuni-hohenheim.de/~www570a/spoerer/ entschaedigung.htm; Gunnar Heinsohn, Das Klaus von Munchhausen-Gerhard
Schröder-Team und der 3.9
Milliarden Coup der
jewish Claims Conference, cronologia preparata per ARD/Radio Bremen, 23
febbraio; corrispondenza con UIrich Herbert, 18 aprile 2001, e Michael
Hausfeld, 17 gennaio 2002).
98. Cfr. p. 84 segg.
dell'edizione inglese in brossura. Le mie conclusioni si basano in gran parte
su German Reparations and the Jewish
World, uno studio del professor Ronald Zweig commissionato dalla Claims
Conference. Dopo la pubblicazione dell'Industria dell'Olocausto, Zweig mi ha
accusato più volte di aver «travisato» e «usato scorrettamente» le sue
ricerche, ma, pur avendo avuto spazio e tempo sufficienti a far valere le
proprie ragioni, non ha saputo citare nemmeno un esempio (cfr. la recensione di
Zweig dell'Industria dell'Olocausto sul sito http://www.amazon.com/ e p. 10
della sua introduzione alla seconda edizione di German Reparations and the Jewish World, Londra
2001 nonché il dibattito radiofonico Democracy Now all'indirizzo
www.webactive.com/pacifica/demnow/dt120000713.html).
99. Jon
Greenberg, Jewish Leader Say Holocaust
Reparations Are Nearly Complete, in «Associated Press», 2 novembre 2001
(«undici miliardi»); Yair Sheleg, Conflicting
Claims, in «Haaretz», 10 dicembre 2001 (proprietà tedesche); Nacha Cattan, Shoah «PeopIe» Fund Attacked («discute»)
e Clash Looming Over Uses of Shoah Funds,
in «Forward», 9 novembre 2001 («scena»).
100. Per
queste cifre, cfr. pp. 152, 159-160 dell'edizione inglese in brossura.
101. «PR-Newswire»,
4 giugno 2001, («garantire», Sachs, Schäcter); NAHOS, vol. 7, no.
15 (Rechter), vol. 7, no. 17,16 luglio 2001, p. 2,
vol. 8, no. 2, 20 dicembre 2001, pp. 5-7
(«iniziative ambigue») e vol. 7,
no. 13 («considerevole fetta»), p. 3; Cattan, Shoah «People» Fund Attacked («enti benefici preferiti»); Yaìr
Sheleg, Future Imperfect Tense, in
«Haaretz», 1· febbraio 2002 (Michael Kleiner); Eliahu Saipeter, Time Is Running Out for Compensation, in
«Haaretz», 13 febbraio 2002 («strumento»). Rechter si domanda perché le
organizzazioni costituenti l'industria dell'Olocausto stiano «lottando con
tanta ferocia» per una fetta dei risarcimenti se, a quanto dicono, il denaro
non sarà sufficiente nemmeno a finanziare un programma di assistenza sanitaria
(NAHOS, voi. 8, no. 3, p. 1).
Denunciando l'uso fraudolento che l'industria dell'Olocausto
fa dell'espressione «sopravvissuto all'Olocausto» per negare il dovuto agli
effettivi superstiti, Rechter osserva inoltre: «Aiutare gli ebrei bisognosi è
sicuramente una nobile causa, ma occorre ricordare che questo denaro è stato
richiesto per conto dei sopravvissuti all'Olocausto e che dovrebbe quindi
essere impiegato a loro vantaggio. La Russia non subì l'occupazione nazista.
Molti dei suoi ebrei fuggirono a est per paura dei nazisti e sono pertanto
«vittime di guerra», ma non sopravvissuti all'Olocausto». Un'espressione è
stata manipolata in modo analogo allo scopo di gonfiare il numero di superstiti
durante i negoziati per i risarcimenti (Sheleg, Conflicting Claims, e p. 160 dell'edizione inglese in brossura). A
titolo informativo, mentre i sopravvissuti anziani muoiono senza assicurazione
medica, l'attuale compenso annuo e le gratifiche di Gideon Taylor, vicepresidente
esecutivo della Claims Conference, ammontano complessivamente a
duecentoventimila dollari (dichiarazione dei redditi presentata dalla Claims
Conference nel 1999).
102. Nacha
Cattan, Shoah «People» Fund Attacked e
Struggle Seen as Bronfman Eyes WJC Exit, in «The Forward», 4 gennaio 2002
(principale beneficiaria); «Libération», 15 settembre 2001 (Hilberg). Per
«alcun valore», cfr. p. 55 dell'edizione inglese in brossura. L'«educazione
all'Olocausto» non prospera solo nel mondo editoriale ma anche in quello accademico.
L'università australiana di Sydney offre ora un «master per gli studi
sull'Olocausto». Perché non offrire anche un «master sulla grande carestia
irlandese»?
103. Martin
Gilbert, Never Again: A History of the
Holocaust, New York 2001, p. 25
(«intelligente»). Per la traduzione in lituano,
cfr. Task Force for International
Cooperation on Holocaust Education, Remembrance and Research, all'indirizzo
http://taskforce.ushmm.org/ (Working
Group on the Liaison Project with Lithuania: State of project as of September
2001).
104. Bauer,
Rethinking the Holocaust, cit., pp.
xii-xiii, 7 (razionalità contro irrazionalità), pp. 43, 53, 263-264
(Illuminismo/Rivoluzione francese), pp. 50, 52, 109, 140, 264, 265, 267
(zingari), p. 86 (storiografia tedesca), p. 21 (Himmler).
105. Guenter
Lewy, The Nazi Persecution of the
Gypsies, Oxford, 2000, pp. 38, 116, 117, 118, 128, 162, 165 («toglierli di
mezzo»), 220, 221 («contaminazione»).
106. Richard
Overy, Interrogations: The Nazi Elite in
Allied Hands, 1945, New York:
2001, p. 378. Sono in debito con Harold Marcuse per le
informazioni sulla deposizione di Blaha (cfr. Eugen Kogon et al., Nazi Mass Murder. A Documentary History of
the Use of Poison Gas, New Haven 1993, cap. 8).
107. Per
le osservazioni di Eizenstat, cfr. Unofficial
Transcript: Schaumayer, Eizenstat on Nazi Slave Labor Fund, 17 maggio 2000.
Non perdendo mai l'occasione di fare a scaricabarile, Edgar Bronfman,
presidente del CME e multimiliardario della Seagram, ha chiesto agli ebrei di
«fermare l'austriaco Jörg Haider e gli altri estremisti versando al Congresso
Mondiale Ebraico un contributo per le emergenze» (sollecito inviato per posta).
108. Together. American Gathering of jewish
Holocaust Survivors, novembre 2001; Ron Rosenbaum, Degrees of Evil, in «Atlantic Monthly», febbraio 2000; Andrew
Sullivan,
Who Says It's Not about
Religion? in «The New York Times
Magazine», 7 ottobre 2001. 109. Robert Fisk, Peres Stands Accused over Denial of «Meaningless» Armenian Holocaust, in
«The Independent», 18 aprile 2001. Astenendosi da qualsiasi confronto tra lo
sterminio nazista e quello turco, l'ambasciatore israeliano in Georgia e
Armenia ha affermato che gli ebrei furono vittime di un «genocidio», mentre
quel che è accaduto agli armeni è stato semplicemente una «tragedia» (Armenia Files Complaint with Antel over
Comments on Genocide, in «Associated Press», 16 febbraio 2002).
110.
Bush
Remembers Holocaust Victims, Pledges Defense of Israel, in «Reuters», 19
aprile 2001.
111.
Amir Oren, At
the Gates of Yassergrad, in «Haaretz», 25 gennaio 2002, e Uzi Benziman, Immoral Imperative, in «Haaretz», 10
febbraio 2002.
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Comunità, Milano 1996 [The Origins of
Totalitarianism, 1951].
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cassieri dell'Olocausto, Sperling & Kupfer, Milano 1998 [Nazi Gold]
Noarn Chomsky, La
quinta libertà: ideologia e potere.
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