Ieri ho partecipato ad un incontro sulla situazione in Sudan, giustamente definita una “catastrofe umanitaria”, anzi, la catastrofe umanitaria più grave dei nostri tempi. L’incontro è avvenuto al Pime di Milano, con l’intervento di esperti analisti ma anche di testimoni delle condizioni reali di vita di quelle zone martoriate dell’Africa.
Il Sudan è in guerra fin dal 1956, quando ottenne l’indipendenza
da Regno Unito ed Egitto e il conflitto più sanguinoso, durato decenni, ha
portato alla costituzione del Sudan del Sud nel 2011, ora Stato indipendente a
tutti gli effetti. Ciò non toglie che i conflitti interni sono continuati e
continuano tutt’ora: adesso è il corso una devastante guerra tra le Forze
armate sudanesi del governo in carica e le “Forze di Sopporto Rapido”, un
gruppo di “ribelli”, che hanno velocemente occupato una larga parte del Paese,
anche perché sono militarmente meglio equipaggiati (dispongono di droni).
Quest’ultima guerra, di cui nessuno parla, è iniziata il 15
aprile 2023 e quindi tra pochi giorni saranno due anni che va avanti. I numeri
sono impressionanti: sembra che un milione di sfollati si sia rifugiato in Egitto
e un altro milione in Ciad, Paesi che non hanno di per sé una condizione
economica particolarmente florida e che quindi non vedono di buon occhio questa
invasione di sudanesi. Entrambe le Forze inoltre ostacolano gli aiuti
umanitari, non volendo che questi vadano al nemico, per cui la situazione di
emergenza alimentare è drammatica.
Questo conferma la mia convinzione che le zone dell’Africa
nelle quali si soffre la fame siano le zone di guerra, perché se la gente
potesse coltivare i prodotti agricoli in problema non sussisterebbe.
Al termine dell’incontro c’è stata la possibilità di porre
domande: tutte le questioni poste vertevano su un unico problema: come mai un
Paese può andare avanti a farsi la guerra per decenni? Da dove arrivano le armi?
Quali Stati le procurano? E come fanno ad avere addirittura i droni?
Le risposte dell’analista sono state: vengono dagli Emirati
Arabi Uniti, dall’Arabia Saudita, dall’Iran e dalla Turchia.
Io però mi chiedo: e a questi Stati chi le procura?
I produttori di armi
sono principalmente gli Stati Occidentali, Stati Uniti d’America, Regno Unito,
Francia, Germania e, guarda un po’, anche Italia. Ho ancora negli occhi l’immagine
di Giorgia Meloni che sottoscrive un accordo di 40 miliardi per vendere
tecnologia ed armi della Leonardo, di Fincantieri, di Finmeccanica, guarda caso
proprio agli Emirati Arabi Uniti. Mi dicono poi che i droni sono prodotti dalla
Piaggio, appena acquistata dalla Turchia.
E mi è giunta voce che il governo Meloni abbia in mente di
riconvertire anche delle industrie automobilistiche in fabbriche di armi.
D’altra parte perfino una parte della sinistra, dopo decenni
di blateramento sulla pace, adesso sostiene che bisogna riarmarsi: per avere la
pace occorrono più armi. Si finge un pericolo, o meglio, si inventa un nemico,
per poi dire che è necessario produrre armi. Si tentano distinzioni di lana
caprina tra armi offensive e armi difensive (sic!). Non si obbietta sulla
cessione di tali armi ai Paesi in guerra: beh, certo, così va il mondo! Così si
fanno gli affari! La Leonardo sta andando a gonfie vele, vendendo armi a mezzo
mondo!
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