Elisa Di Francisca, ex campionessa olimpica di scherma, ha sotterrato la nuotatrice Benedetta Pilato arrivata quarta nella finale della sua specialità sotto una grandinata di commenti acidi, irridenti e francamente antipatici. Con tanti cari saluti alla solidarietà femminile e all’empatia delle donne. Le quali donne dovrebbero governare meglio la ferocia innata compensazione della mancanza di prestanza, almeno quanto gli uomini dovrebbero tenere a bada l’ottusità morale assolta dalla forza fisica. Uno pari e palla al centro. Un giorno o l’altro la smetteremo coi commenti simil-intelligenti che attaccano le persone procedendo per luoghi comuni.
Poi ci sono verità più profonde, che vanno oltre la meschinità episodica della Di Francisca (perdonata di cuore: ognuno di noi, in assenza di telecamere e microfoni, si lascia andare a giudizi stupidi che lui stesso non ripeterebbe mai). La prima verità è appunto la sostituzione delle categorie aristoteliche con i luoghi comuni. Le prime hanno carattere generale, dunque universale, ed hanno come obiettivo fissare un canone che permetta di comprendere ciò che esiste.I
secondi sono il simulacro scimmiesco delle prime. Sono particolari, spesso caricaturali e ridicoli, che si pretende di elevare a principio universale. Di Francisca prende in giro la Pilato della quale accusa le dichiarazioni confuse, pronunciate in lacrime a bordo piscina alla fine della gara che l’ha vista ad un centesimo di secondo dal podio, accusandola fra l’altro di latenza di spirito competitivo.
Vorrei sapere se Di Francisca ha qualcosa da dire sul pugile algerino, registrato come donna (c’è la commissione che lo ha certificato, signori della corte), che si appresta a gonfiare di botte la pugile italiana Angela Carini. Perché “uomo” e “donna” sono appunto categorie aristoteliche, mentre sentirsi donne senza esserlo è un luogo comune decretato dalla copertura pubblicitaria.
Temo che non userebbe lo stesso livore che ha riservato alla collega Pilato contro Imane Khelif, fra l’altro cavalcato – mi si perdoni il calembour sessista – come emblema di un presunto Islam inclusivo. Se c’era una sintesi capace di irritare i cinque milioni di magrebini francesi già abbastanza surriscaldati, Napoleone Macron l’ha trovata. Ma magari Di Francisca ci smentisce.
La seconda verità, costata l’infortunio comunicativo a Di Francisca, è la cultura del commento coatto. Viviamo in una realtà letteralmente ottenebrata dalle parole, alla quale anche la televisione – immagine per natura – si è piegata di buon grado. A conti fatti il presupposto è che lo spettatore-utente non sia in grado di capire ciò che vede, e soprattutto di giudicarlo in modo autonomo (bene o male è indifferente), ma che abbia bisogno di un sussidio al giudizio dato dal medium stesso. Meglio ancora: il surrogato prêt-à-porter del giudizio stesso, cotto e mangiato.
È il filtro del commento dell’esperto, più spesso presunto tale. La verità sottesa è che l’immagine in se stessa non mi dice assolutamente nulla. Vedo un bambino decapitato, non so se sia vero o sia un pupazzo né dove si trovi. Non so chi l’abbia ucciso, se un altro essere umano o un incidente, se aveva una madre, un padre, dei fratelli.
L’immagine omette e nasconde un sacco di cose, e presuppone parole che la spieghino tradendola. L’immagine ha una sua forza autonoma quando trascende il particolare, mostrando l’estasi e l’orrore universali della natura. L’immagine è tale quando diventa arte: Giuditta e Oloferne di Caravaggio, le foto di Cartier Bresson, i tramonti e gli incendi di Turner, Crono e le esecuzioni di Goya, alcune inquadrature di Kubrick accompagnate da musica classica. Non certo la televisione, e meno ancora l’evento televisivo trasmesso “dal vivo” e “in diretta”.
La terza verità che scompare è l’abolizione della contemplazione, inumata dalla necessità di passare ad altro: il frame successivo, il “fatto” che verrà, ma soprattutto il prossimo verboso pistolotto.
Lac ontemplazione coinvolge il corpo, la mente e lo spirito. La parola arriva sempre dopo, mai nello stesso momento. Essa deve in qualche misura salvare, racchiudendolo, il destino dell’uomo e delle sue mene.
A suo tempo, per promuovere un rinascimento culturale autentico, proposi l’abolizione delle prefazioni e delle postfazioni dai libri, altra forma di inquinamento dell’esperienza e delle coscienze che appesta il clima molto più della CO2. Sento il dovere di aggiungere la rimozione del commento teleuditivo, sorta di escamotage a costo bassissimo che riempie i media di spazzatura, magari costringendo i vari direttori di rete ad un ritorno alla qualità, che alla lunga paga sempre ed eleva la mente e gli spiriti. Non accadrà, ma sarebbe bello.